Anna Magnani, con pochi minuti di televisione, ha conquistato l’America. Tutto il mondo del cinema si è riunito per festeggiarla e riconoscerla pari alla “grande Garbo”.
New York, maggio
Anna Magnani sbarcò a New York un sabato mattina alle otto: domenica sera l’avevano già vista venticinque milioni di persone; lunedì non poteva mettere il naso fuori dall’albergo, che non ci fossero ad aspettarla schiere di ammiratori, e non poteva entrare in un teatro, un ristorante o un negozio che non ci fosse qualcuno ad esclamare, in estasi: «Miss Magnani! Proprio come in televisione!»
Alla TV si presentò, com’è suo costume, senza cerone, senza trucco, coi suoi grandi occhi brucianti sotto i capelli arruffati: la videro gli spettatori da un capo all’altro dell’America, e la riconobbero; ma non la vedevano quattro personaggi bendati, che dovevano riconoscere dalla voce «l’ospite misteriosa» del programma.
Le fecero delle domande: «Sei bella?» «Hmmm, Hmmm!» rispose Anna, in perfetto inglese. Gli esperti capirono subito: sì.
«Sei un’attrice?» un atro «Hmmm, hmmm» «Lavori in America?» «Um, um…» Gli indovini bendati interpretarono: no.
Alla fine, esplose Arlene Francis: «Anna Magnani!».
La sua comparsa in televisione, durata pochi minuti, era stata una sorpresa assoluta: in tutta New York, lo sapevano forse dieci persone; ma, quando uscì dallo studio, c’era già la fila dei tifosi ad attenderla.
Fu sempre così: una mattina all’alba (per Anna, l’alba finisce, anche in America, verso l’una pomeridiana) quattro studenti, incuranti del cartello «Preghiera di non disturbare» attaccato fuori della porta, bussarono alla sua stanza d’albergo. Ella andò ad aprire, ancora assonnata… «Tutta in disordine, in pigiama…Chissà come stavo… L’ho trattati proprio male…» Ce lo racconta lei, quando ritrova, alle cinque del pomeriggio, quegli stessi quattro («Gli tremavano le mani, poveracci!») con gli immancabili taccuini aperti per ricevere la sua firma. «E quel prete simpaticone» continua «che m’ha fermato per la strada… A momenti m’abbracciava!» Aveva visto il Miracolo, e la mattina dopo, col viso in fiamme, si presentava anche lui all’albergo: «Signora Magnani… Sono un poeta: permetta che le offra il mio volume di versi!».
Non si era mai visto nulla di simile. Questo paese, quando abbraccia una persona, lo fa con violenza elementare; e la nostra «Nannarella», presa nella stretta, vi si abbandona; comprende lo spirito di questo popolo meglio di molti altri che ne parlano la lingua e vivono qui da anni.
«Sono come puledri di razza: non si possono trattenere… Bisogna lasciarli fare, abbandonarli alla loro spontaneità…» Osserva tutto, segue ogni gesto, ogni inflessione di voce di chi le si avvicina; le sue reazioni sono così pronte, che sembra che, da un momento all’altro possa mettersi a parlare inglese, senza sforzo.
Ma quando le rivolgono la solita banale domanda: «Be’, che ne dice dell’America?» si fa pensierosa: «E che, si può rispondere così, da un momento all’altro… Questa è una cosa seria…».
New York, le luci di Times Square, la città stesa ai piedi dei grattacieli, lo spettacolo delle miriadi di fnestre accese, nelle prime ore della sera, viste da un ponte sull’East River, il traffico incessante lungo le avenues tra le vetrine fulgide di «roba bella», la elettrizzano.
Roma, la sua Roma, e New York, che in pochi giorni ha fatto sua Anna Magnani: l’una e l’altra, come due poli opposti di una batteria sensibilissima, la fanno vibrare.
Ad un cocktail per la stampa, la ressa fu tale, che la Magnani dovette rifugiarsi in un salottino, in cui gli ospiti venivano ammessi a piccoli gruppi. Anna stette in piedi, per tre ore, a ricevere l’omaggio degli ammiratori, e a rispondere alle domande dei giornalisti: «Quanto pesa il brillante che porta al dito?» «E che ne so?!…» «Quanti vestiti ha portato?» «Tre sottane e tre golf» «Le piacciono le bionde?» «Moltissimo!» con marcata ironia. «E gli uomini americani?» «Beautiful!» con una larga risata.
In questo paese dove le «stelle» si fabbricano in serie, tutto il mondo della critica del teatro, dell’arte è rimasto addirittura soggiogato dalla individualità, ribelle a qualsiasi artifizio, di quella che si è ormai conquistato il nome di «nuova Garbo».
Venne Judith Anderson, la grandissima interprete di Medea e di Rebecca, e le baciò la mano. Ginse in volo da Boston, tra una recita e l’altra, la piccola e già famosissima Julie Harris, di cui la Magnani rimase incantata, vedendola per la prima volta nel film «The Member of the Wedding» durante la traversata sull’«Andrea Doria». Shirley Booth, vincitrice dell’Oscar di quest’anno, introdusse la Magnani nell’ambiente teatrale di New York, offrendo un ricevimento in suo onore: da Danny Kaye a Dorothy Gish, da Anita Loos a Farley Granger, da Igor Cassini a Geraldine Brooks: c’erano tutti.
Bette Davis, convalescente da un’operazione, volle riceverla a letto. «Avrei voluto venire io da lei!» si scusava la Davis, che – tra parentesi – presenta personalmente sullo schermo l’edizione inglese di Bellissima.
«Quando sono uscita dal cinema, dopo aver visto Eva contro Eva, avevo la pelle d’oca» diceva la Magnani. «Dopo Roma città aperta piansi per mezz’ora» ribatteva Bette.
Parlarono poi, a lungo, della «libertà» dell’artista, che Bette avvezza ai registi americani sente di invidiare alla sua collega.
Anna Magnani ha riso a gola spiegata con Danny Kaye e Jimmy Durante, ha bevuto champagne col campione dei pesi-medi Sugar Ray Robinson, ha ballato a Harlem con gli artisti di «Porgy and Bess»; è stata riconosciuta, festeggiata, intrattenuta da tutta New York.
Ma una sera, alla trattoria di Lorenzo Marchi, in una saletta che tiene onon più di cinque tavolini, ha intinto il pane nel vino, ha gustato i funghi all’italiana e le «frappe» alla romana, si è messa a giocare con un enorme cane lupo, ringhioso con tutti, tranne che con lei («Ma quantè bbbello!», ripeteva ammirata), ha parlato del Circeo e dei «pizzardoni»; l’America non c’era più; era tornata in Italia.
Ed una domenica pomeriggio, a Brooklyn, conobbe il cuore degli italiani d’America: la popolare compagnia di Giorgio Mauri dava il Conte di Montecristo (nove quadri, una dozzina d’interpreti) all’Accademia di Musica, gremitissima. Pubblico quasi tutto dai quarant’anni in su, ma dalle reazioni infantili; si battono le mani al buono, si fischia al cattivo e si palpita per la sorte della vittima innocente.
A metà dello spettacolo, venne un «buttafuori» ad annunziare una sorpresa: straordinaria, colossale, senza precedenti. «Abbiamo qui un’artista… Una grandissima artista… italiana, romana…». La reazione del pubblico fu immediata; serpeggiò per il teatro un nome: Anna Magnani!
E venne lei, il volto più bianco del solito; abbassarono il telone, improvvisamente, e la lasciarono sola. «Vi aspettate da me un discorso?» Le parole uscirono pressochè inintelligibili. «Voce!» urlò qualcuno dal loggione. Ma la voce non veniva; non poteva venire, perchè Anna piangeva. Si presentò una ragazza con le immancabili rose rosse, impettita; pareva finta.
Vera era soltanto Anna, nel suo silenzio carico di parole non dette. E vero era il pubblico, che ora si alzava dalle poltrone, prorompeva in applausi, e gridava, gridava «A’ Nannare’…» C’era dunque almeno un «romano de Roma» anche a Brooklyn!
E le si affollarono intorno le donne, dai capelli bianchi e dai teneri occhi; la accompagnarono fino all’automobile.
«Ce l’hai la mamma?» le chiese una vecchietta, stringedole senza esitazione la faccia tra le due mani. «Si che ce l’ho» belbettò Anna. «Allora, ti benedico in nome di mamma tua!»
Tornando all’albergo in macchina, per parecchio tempo, la Magnani non parlò più.
G. Raccà
(foto di copertina © Tony Vaccaro)