In genere non si crea il culto della personalità se prima di tutto non si è, nell’intimo, dediti a questo culto.
Si pensi, per esempio a D’Annunzio: la sua popolarità, come figura pubblica, derivava prima di tutto dal suo eccezionale narcisismo. Anna Magnani, invece, era quel raro personaggio che è un narcisista amaro, scontento, insicuro, profondamente diffidente della propria popolarità anche se incapace d’approfondire e rimuovere i motivi di questa sua diffidenza.
Ricordo una serata, diciamo così, tipica con Anna Magnani e Pier Paolo Pasolini, ai tempi relativamente recenti di Mamma Roma. Le proponemmo di scegliere fra un ristorante qualsiasi e un noto locale cosiddetto caratteristico, decorato nello stile della Roma rustica e papalina con selle e finimenti di cavalli, carri da vino con il soffietto dipinto, spiedi di ferro, pentole e teglie di rame, tavoloni e sgabelloni di quercia, botti, barili e bicchieri col fondo grosso, dove, sicuramente, il suo mito personale avrebbe trovato una collocazione immediata.
Scelse subito, sia pure con scettica e sarcastica accondiscendenza, il locale caratteristico. E una volta seduta in un tavolo un po’ appartato nella piazzetta trasteverina gremita di turisti americani, ebbe un primo movimento di delusione vedendo che il suo arrivo non aveva provocato la consueta curiosità. Ma questa distrazione durò poco.
Erano appena passati cinque minuti che tre o quattro fotografi già stavano inginocchiati intorno a noi cercando di riprendere “Nannarella” a cui il chitarrista lusinghiero e familiare, un piede sul piolo della seggiola, la chitarra sulle ginocchia, andava propinando nell’orecchio il suo canto sommesso e commosso.
Intanto da tutti i tavoli gli avventori stranieri avvertiti da accompagnatori e ciceroni si voltavano per guardarla; e dalla frangia di donnette e ragazzini che se ne stavano intorno in piedi a godersi la musica, si erano levati applausi e invocazioni.
Guardai in quel momento Anna Magnani e vidi che, chiaramente, essa non partecipava che a metà a questa specie di improvvisata rappresentazione. Certo i suoi occhi magnetici brillavano di eccitazione non finta; certo la celebre risata crudele e aggressiva si accendeva con perfetta naturalezza sul viso un po’ stanco e macerato, ma al tempo stesso c’era in lei qualcosa di amaro, di malsicuro e di deluso.
Era, sì, l’attrice celebre, il personaggio rappresentativo; ma insieme, nel fondo contraddittorio della sua strana e orgogliosa umiltà, forse dubitava di esserlo davvero oppure avrebbe voluto esserlo in un altro modo. Il suo narcisismo scontento e diffidente le faceva forse subodorare nella sua popolarità qualche cosa di inautentico, un po’ analogo alla decorazione del ristorante in qui in quel momento si trovava. Ma probabilmente si rendeva pure conto che ogni popolarità è fondata su un malinteso; e che la sua, almeno, poteva contare su una originaria carta di nobiltà verace e indiscutibile.
D’altra parte, alla sua rassegnata e scettica partecipazione doveva anche contribuire la riflessione che per un’attrice come lei, che aveva dovuto il successo proprio al fatto di aver abolito il confine tra la vita e l’arte, tra la persona e il personaggio, tra la passione e l’espressione, era impossibile fare certe sdegnose e schive distinzioni.
Essa doveva accettare di essere, così sullo schermo come fuori dallo schermo, una presenza fatta di impetuosa vitalità esistenziale, la quale, via via, poteva, come non poteva, coagularsi in una forma riconoscibile.
Ma come si fa a sapere quando la vitalità riesce a trovare la forma che le conviene e quando invece si limita ad esplodere? Affidata al solo istinto, Anna Magnani probabilmente non era mai del tutto sicura di aver creato un vero personaggio; o invece di essere rimasta al di qua dell’interpretazione, nell’imitazione di se stessa.
Ho cercato di illuminare il difficile e oscuro rapporto nella vita e nell’animo di Anna Magnani tra la figura pubblica e l’interprete. Ora però vorrei aggiungere che questa attrice arrivata così tardi alla maturità artistica e al successo, dopo una lunga anticamera nell’avanspettacolo e nel cinema di consumo, questa donna disadattata, affettuosa, incolta e nevrotica, seppe fare qualche cosa che accade molto di rado nel mondo casuale e improvvisato del nostro cinema: intersecare la propria meteorica traiettoria con l’orbita misteriosa e controversa della cometa chiamata Storia.
A ben guardare fuori di metafora, la carriera di interprete di Anna Magnani è legata quasi esclusivamente alla regia di Roberto Rossellini e soprattutto al film Roma Città Aperta. Bellissima di Visconti, pur avendole ispirato una delle sue migliori interpretazioni, è un’altra cosa; e così pure i film girati da Lattuada, Zampa, Camerini, per tacere dei film del periodo americano e delle molte altre prestazioni addirittura di consumo.
Perchè Roma Città Aperta e Roberto Rossellini sono stati così importanti per Anna Magnani? Perchè, come ho già detto, in quel film Anna Magnani si è trovata con la sua vitalità viscerale, il suo slancio esistenziale, la sua disponibilità passionale nel centro di due esperienze nitide e precise, perfettamente a fuoco sia in senso storico che in senso estetico: la Liberazione e il neorealismo.
Qualcuno penserà che io intendo dire che Anna Magnani si “impegnò” allora sia come artista che come persona. Certo il termine di impegno risolverebbe il problema; ma sarebbe una risoluzione un po’ affrettata e convenzionale. Diciamo piuttosto che Anna Magnani negli anni del dopoguerra seppe ricevere più di quanto non diede. All’apertura generosa, alla ricettività ingenua di quel breve periodo essa dovette di aver potuto in seguito dare tutto quello che ha dato.
Alberto Moravia
7 ottobre 1973