Per arrivare a Cecafumo – al mercato di Cecafumo – al posto cioè dove oggi dobbiamo lavorare – ho fatto una strada bellissima, tra le sette e le otto di mattina, che è un’ora in cui c’è una luce che conosco pochissimo perchè io di solito dormo fin tardi. Sono venuto lungo la Garbatella, le mura di San Sebastiano, l’Appia Antica, l’Appia Pignatelli, fino ad arrivare sull’Appia Nuova, e da qui attraverso degli enormi ruderi – gli archi dell’Acquedotto a cui sono aggrappati villaggi di tuguri – sono arrivato a Cecafumo (…).
Sono arrivato, e sul posto di lavoro mi aspettava tutta la troupe, le facce illuminate dal sole – sempre quel famoso sole quasi cadaverico e, nello stesso tempo, felice. E, mentre si girava la prima inquadratura, che è una specie di balletto contro i ruderi, eseguito dagli amici di Ettore (cioè del protagonista del film), mi è stato detto che la Magnani voleva vedermi un momento, prima di girare la sua sequenza.
Sono andato da lei che si era installata in una delle case tutte uguali costruite dall’Ina-Casa qui a Cecafumo. Un appartamentino di operai, ben tenuto, con mobili poveri, ma modernissimi, di compensato e di metallo, puliti e pieni di dignità: era dentro l’intimità di questa famiglia che l’ospitava, con i suoi truccatori e la sua parrucchiera, che si era accampata Nannarella.
Stava davanti allo specchio, con la sua angosciata tranquillità, la sua scontentezza, il suo impeto. Quello che doveva chiedermi era se quel giorno poteva recitare senza la parrucca (che di solito si mette, per comodità) in quanto voleva avere la faccia “sua”, completamente “sua”, per recitare l’ultima scena del film. La scena in cui le viene annunciato che suo figlio Ettore è morto e lei fugge urlando verso casa. Voleva chiedermi solamente questo. E l’ha fatto con un’aria talmente infantile, talmente sospesa, che mi ha commosso.
Aveva capito perfettamente il mio desiderio di vederla ingenuamente così com’è – quasi senza trucco, con la sua faccia vera – nel momento più tragico e doloroso del film.
Questo è un piccolo sintomo di come in realtà dopo un giorno soltanto, e non più, di crisi, i rapporti tra me e lei sono corsi via lisci, limpidi, leali.
Il problema praticamente era questo: io giro a brevissime inquadrature – inquadrature che non durano più di due, tre minuti al massimo – dei primi piani, delle figure intere, dei movimenti elementari – che poi coordino in montaggio che è esattamente quello che ho in mente prima di girare.
Ora la Magnani non è preparata a questo tipo di ripresa: è abituata, evidentemente, alle inquadrature lunghe, articolate, in cui lei appare in tutta la sua pienezza, coglie il personaggio sfumatura per sfumatura, di minimo passaggio in minimo passaggio, in tutte le più dettagliate e infime fasi dell’espressione. Così lavora da anni e quindi capisco che per lei sia stato difficilissimo adattarsi ad un genere di lavoro che invece coglie i sentimenti, le espressioni, i passaggi psicologici in un momento culminante, assoluto e fermo.
Qualcuno mi dice che la Magnani desidera parlarmi e io salgo da lei, nella stanzetta della famiglia di Cecafumo che la ospita.
Tira l’aria delle grandi occasioni. C’è il problema dell’inquadratura vista ieri, che ci ha angosciato, per diverse ragioni, tutti e due. E su questo siamo tutti e due d’accordo: è una inquadratura che va rifatta.
Io: «Discutiamo di questa inquadratura, Anna. L’inquadratura in cui tu ridi e chiedi a tuo figlio “E’ bella questa motocicletta che ti ho comprato? E’ come la volevi te?” Quel riso, parlami di quel riso».
Anna: «Quel riso. Tu sai meglio di me che, pur restituendo lo spirito con cui tu l’hai concepito, quel riso si può eseguire in tante maniere diverse. Il riso può venire prima, può venire dopo, può venire in anticipo, può venire in ritardo. Io sono una cosa fragilissima. C’è stato un momento in cui ho cominciato la scena e, all’azione, tu mi hai gridato “Ridi, ridi. Anna!” e io ho fatto una risata cretina. Mi sembra che il mio riso in quell’inquadratura sia falso, e siccome non mi è venuto spontaneo – e su questo mi sembra che sia d’accordo anche tu – mi ha fatto perdere l’equilibrio del resto della battuta. Insomma recito male, si, recito male, io, di cui si dice che sono un’attrice consumata, una vecchia volpe…».
Io: «Nel caso della cattiva riuscita di questa inquadratura siamo d’accordo. Però ciò che vorrei farti notare, non proprio a proposito di questa inquadratura, ma a proposito di molte altre inquadrature simili, è questo: il dirti “Ridi, ridi” mentre stai per recitare, cioè il mio imbeccarti dal di fuori, in una specie di iniezione di espressività, è un’abitudine che io ho preso facendo recitare gli attori della strada, alle cui facce io devo dare un colpo di pollice nel momento per loro più inaspettato, quasi a tradimento. Ora tu devi saper comprendere e perdonare questi miei interventi».
Anna: «Ma certo, ed è per questo che ne parliamo con tanta tenerezza e tanta amicizia. Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani. Ora, io non sono un robot».
Io: «Ma questo è una difficoltà che io avevo calcolato. Anna. Amalgamare te con gli altri era il problema principe del mio nuovo lavoro di regista: ne avevo piena coscienza all’inizio del film. Non sarebbe meglio, su questo, essere reticenti?».
Anna: «No, io credo che occorra avere dei piccoli conflitti di chiarificazione. La via d’intesa tra due persone intelligenti si trova sempre. Altrimenti io ho la sensazione di funzionare senza avere la coscienza di quello che faccio; invece io ho bisogno, assoluto, di avere questa coscienza».
Io: «Questo, più che chiedertelo, lo pretendo. Non voglio che in tutto il nostro lavoro ci sia il minimo d’incoscienza in quello che fai. Dunque: sulla questione specifica di questa inquadratura del “Ridi, ridi, Anna!” siamo d’accordo su due cose: sul fatto che ho torto di intervenire quando reciti; un torto in parte giustificato… e sul fatto che tu hai accettato la mia possibilità di girare unicamente come giro, a piccole monadi figurative».
Anna: «Ah, alle volte, prendere una scena e cominciare dalla fine, mi scombussola un pochino, perchè non so com’è, come dev’essere l’inizio. Certo tu lo sai… però, da attrice cosciente, vorrei saperlo anch’io!».
Pier Paolo Pasolini
tratto da “Mamma Roma, Racconto Diario Film” (Rizzoli, 1962)
Foto © Archivio Luce
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Quando si dice “Mamma Roma”, il pensiero va immeditatamente ad un film e ad un rapporto conflittuale, una sorta di incontro/scontro fra due personalità di spicco, troppo grandi e troppo diverse per potersi comprendere fino in fondo ed amalgamarsi completamente sul set. Se è vero che il rapporto Pasolini – Magnani non fu sempre disteso, l’idea del conflitto non mi ha mai completamente convinta e la lettura del brano pubblicato mi conforta nella mia convinzione. A sentir parlare i diretti interessati, infatti, più che “scontro” sarebbe più giusto dire”dialettica”, vivace e a tratti serrata, tra due grandi artisti, molto diversi nella loro idea e nel modo di interpretare il cinema ma uniti da una profonda stima, da ammirazione per le rispettive storie e da un sincero, reciproco affetto.
Certo, alla sua uscita, il film scontentò entrambi: “Pasolini mi ha usata”, diceva Anna, “Troppo borghese”, rispondeva Pier Paolo. Certo, di errori ne furono fatti e, a mio avviso, da entrambe le parti. Sbagliò Pasolini, che volle gestire la Magnani come i suoi “non attori”, in inquadrature brevi, non articolate che non le permettevano di prendere perfettamente coscienza dell’azione e non concedevano spazio al suo estro creativo. Sbagliò la Magnani, che, spaventata dal trascorrere del tempo, soffocò con una parrucca immobile i suoi capelli così vivi, intrecciati ad arte per “tirare” il viso, falsando quella espressività e quella intensità drammatica che lo avevano reso unico.
Eppure nonostante gli errori, nonostante la “dialettica” fra regista ed attrice, Mamma Roma è e rimane un film da cui non si può prescindere. Basta un gesto, uno sguardo, l’intensità di un dialogo per farlo entrare di diritto fra i capolavori. Bastano gli occhi di Anna mentre intona per un attimo “Violino Zigano” con la sua voce pastosa; basta la sua disperazione nella scena finale; basta la lunga carrellata notturna e quella sua risata tragica che irrompe nell’immobilità del buio. In altre parole, “basta” la grandezza del binomio Pasolini – Magnani per far dimenticare tutte le incomprensioni, cancellare tutti i difetti e far entrare Mamma Roma nella memoria collettiva di una città. Un film simbolo, che lega a doppio filo Roma all’attrice che meglio l’ha rappresentata e ad uno dei più grandi cantori del novecento.
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