Ricevendo la Mimosa d’Oro aveva detto: sono contenta che ci si sia accorti che recito anche per aiutare le donne a star meglio e ad essere più libere
Era così brava che ci pareva che, anziché recitare, vivesse ogni volta se stessa; ma se così fosse stato, la Magnani dovremmo ricordarla come niente più di una caratterista come ce ne sono tante; il paradosso dell’attore vuole invece che questi sia vuoto, neutro, indifferente, disponibile a qualsiasi personaggio debba indossare; la Magnani fu grande attrice proprio in questo senso, che imparò dalla realtà a precisare, perfezionare, limitare quell’unico grande personaggio – da Roma città aperta a Mamma Roma a Bellissima a 1870 – che recitò e visse lungo tutta la sua carriera: quello della popolana romana, personaggio nel quale poté così unire il proprio istinto e la propria abilità, il proprio temperamento e la propria arte.
Fu una possibilità che scoprì lei stessa; raccontava che era uscita dall’Accademia d’arte drammatica di Silvio d’Amico come «l’alunna più somara che ci fosse mai stata, in un anno e mezzo di studio non avevo aperto un libro»; e le accadde alle prime prove in teatro di inciampare in un personaggio ovviamente minore ma non per questo meno assurdo e irreale, quello di un paggetto che doveva annunciare, in una commedia di Dario Niccodemi: «Il conte di Frambonne sollecita la visita del mio nobil padrone»; il paggetto si impappinò e perse perfino la spada.
In ogni caso gli inizi della carriera teatrale della Magnani furono rigorosamente professionali, accademici appunto, nel puntiglioso e tenace tentativo di imparare il mestiere; non furono peraltro molto facili, finché, appunto, lei non scoprì la sua strada: «Mi ero spesso domandata – raccontò poi – perchè gli attori e le attrici parlassero un altro linguaggio da quello della vita, un linguaggio astratto e magniloquente; osservavo la gente reale come parlava per la strada, come si muoveva»; e infine mise in pratica quello studio, lo fece sul più umile dei palcoscenici, quello del varietà di terz’ordine dove si faticava la vita nella Roma della seconda guerra mondiale, rivolgendosi d’improvviso al pubblico, al suo pubblico, in romanesco; il che oggi può apparire naturale ed anzi banale, mentre allora fu una conquista, un’introduzione della naturalezza, se non ancora del realismo, nel teatro borghese, paludato perfino a livello d’avanspettacolo.
Il realismo, che si chiamò storicamente neorealismo, venne con Roma città aperta, col personaggio, guidato da Rossellini di una popolana vittima della brutalità nazista; ma già prima, con quella sua particolare delicatezza, ad un personaggio popolaresco l’aveva guidata De Sica, in Teresa Venerdì, un filmino da niente dove lei in qualche modo recitava se stessa, una ineffabile attrice di varietà che cantava con voce roca ed affannosa «Qui nel cuor qui nel cuor / c’è l’amor c’è l’amor…»; poi altre popolane di Roma in Campo dei Fiori, L’ultima carrozzella, su su fino a Pasolini e, da ultimo, alla madre e sposa di 1870; una popolana sanguigna, come si usa dire, becera e arrogante, varia ed imprevedibile, suadente e prepotente, d’una sconvolgente autenticità, d’una espressività virulenta; una di quelle donne di Roma fiere e un po’ selvagge, esplosive sotto una fisica indolenza, che una storia per millenni amara ha fatto scettiche e quasi ciniche, senza illusioni comunque, ma capaci di scatti appassionati e, straordinariamente, di esplosioni improvvise per brama di giustizia.
Certo lei era questa popolana, già nel fisico, quella bocca segnata, il naso evidente, lo sguardo di fuoco in fondo ad occhiaie eternamente peste; lo era (per chi la frequentava) in modo addirittura imbarazzante: scontrosa, spesso aspra, a volte addirittura brutale, un carattere difficile e che non faceva niente per ridurne l’asprezza, anzi – probabilmente per ritrosia, per timidezza – le accentuava; spesso dunque, in pubblico, becera; ma con una straordinaria simpatia umana in fondo agli occhi, un’intelligenza pronta, un’ironia attenta.
Nei giorni subito successivi la sua morte, sono stati ricordati di lei tanti episodi, a confermare quella sua realtà personale popolaresca che poi portava, raffinandola con l’arte, nel cinema: come si sa, a Roma s’usa dire che uno non è romano davvero se non è stato in prigione; sicchè lei quando ebbe recitato in Nella città l’inferno – un personaggio così autentico, nella infamità carceraria, che pareva davvero fosse stato tratto dal carcere – ci rideva: «Ora, so’ romana pure io».
Decine di episodi della sua vita confermano tanto quel suo modo d’essere romanesco, che paiono tratti da un qualche suo film: una volta che era con un conoscente in auto, fece fermare, scese, avvicinò una prostituta che sostava su un marciapiede: «Ma non ci hai freddo?» le chiese; e quella rispose che «Certo, ma se fà quello che se deve fà»; la Magnani le diede diecimila lire esortandola ad andarsene a letto e sola, poi, risalita in auto, commentò: «Ammazzalo come fa freddo, nella vita».
La carcerata, la prostituta, la sciantosa, la fioraia, l’amante, la madre; della donna romana de’ Roma rappresentò via via tutti gli aspetti, realizzando proprio quella straordinaria fusione fra natura ed arte, fra temperamento ed esercizio, che hanno poi fatto scrivere sulle enciclopedie dello spettacolo che lei esprimeva una realtà più universale quanto più legata alla realtà cittadina e nazionale in cui era cresciuta; sicchè ad un certo momento ogni autentica popolana romana appare, ai nostri occhi, un po’ Nannarella.
Ma della popolana recitò e visse non solo gli aspetti, come dire? privati, quelli appunto dell’amante, della sposa, della madre, o della sciantosa; ma anche quelli civili; forse fu un caso che Rossellini la scelse per Roma città aperta (la parte era destinata ad un’altra attrice, che non risultò disponibile) ma con quella sua figura ella impose anche a tanti altri registi dei valori dei quali dovettero tener conto, e cioè la capacità (spesso insospettabile) della figlia popolana romana di infiammarsi d’improvviso di passione politica, di vivere non solo la propria esperienza individuale ma i problemi della sua gente.
Non è stato un caso che l’ultimo personaggio di Anna Magnani sia stata la moglie e madre di 1870, in qualche modo lo stesso di quella sua prima straordinaria affermazione, moglie di un patriota (là del secondo, qui del primo Risorgimento), madre d’un ragazzo per il quale i genitori sognano un miglior avvenire.
Tutti gli altri cento volti di quel suo personaggio li ha mostrati nella sua lunga carriera, fra il primo e l’ultimo film, ma è stato in questi che di esso ha rilevato le possibilità umane più alte, appunto quelle non più solamente private ma civili.
Il mondo la conobbe come la donna del partigiano assassinato dai nazisti; e da noi si è congedata come la donna del patriota assassinato dai despoti; erano aspetti della realtà popolare romana ed italiana ai quali teneva molto; anni fa, quando aveva ricevuto in omaggio e premio la Mimosa d’Oro dell’Udi aveva dichiarato: «So’ proprio contenta. Sono contenta che ci si sia accorti che io recito anche per aiutare le donne a star meglio e ad essere più libere». Parole molto semplici, quasi schive; ma dense di significati importanti.
E. Rava