Isolata nella sua bella villa senza telefono, circondata dei pochi amici che si alternano senza superare mai il numero di cinque, Anna si dedica con struggente amore materno al figlio Luca e parla delle sue esperienze americane, passate e future
San Felice Circeo, settembre
La villa di Anna Magnani, a San Felice Circeo, è chiusa tra la montagna e il mare e a nessuno è consentito l’accesso alla strada privata che ne delimita la proprietà. Soltanto alle cicale è permesso di cantare quando Anna dorme nella bella casa che si è costruita a picco sul mare, dando vita a un vecchio sogno.
«Ti ricordi?» mi ha detto. «Quando ho comprato questo terreno non avevo altro denaro oltre quello che costava».
Tuttavia il lato più difficile del suo carattere, che la porta a cercare il silenzio come protezione dall’irruenza della sua stessa vita, più che in questa bella villa mi appare nel ricordo di Mandela, il villaggio sopra Tivoli dove Anna, giovanissima e a corto di denaro, aveva preso in affitto una casetta piantata in mezzo a un bosco, nella quale tutte le mattine venivano a svegliarci la capra e l’asino, chinandosi su noi col gesto di potezione che hanno gli animali del Presepe.
Qui, a San Felice, il canto ininterrotto delle cicale è simile al suono di un campanello elettrico del quale si sia guastato l’interruttore, ma Anna non lo sente più. Anche questo è divenuto silenzio, il grande silenzio del Circeo.
Questa di San Felice, mi ha detto Anna, sarà la sua casa di sempre, la sua dimora ideale.
Una casa lontana dal mondo, senza telefono, dove sono raccolti quadri, libri e dischi di musica classica o di roche canzoni negre. Suo figlio Luca segue i gusti della madre: ama i sei inquietissimi cani che abbaiano alle ombre e, dopo zuffe spaentose, si stringono placati intorno alla tavola come in un quadro fiammingo; legge con piacere; si riposa con voluttà e adora il mare, nel quale nuota per ore intere.
«Che vuoi mai?» mi dice Anna, iniziando le confidenze con il suo intercalare. «Si lavora tanto per guadagnare il privilegio di vivere soli. Le esigenze alle quali mi sottopone la città sono intollerabili», ma non continua il discorso, che affoga subito nella sua famosa risata la quale, al buio, in un teatro dove sia spettatrice, la fa riconoscere dall’intera platea. Il mio sorriso ironico l’ha fatta capitolare.
Infatti, chi la conosce bene sa che Anna non ammette restrizioni alla sua libertà personale la quale si manifesta nei modi più impensati e sempre. Quando è a Roma, capita che gli amici le telefonino per giorni e giorni senza riuscire a parlare con lei che, dopo aver dato ordine di non chiamarla, non dimostra la minima curiosità di sapere chi l’abbia cercata.
Questo desiderio di riposo succede a periodi intensi di lavoro e allora, mentre un’umanità frettolosa si affanna fuori dalla porta di casa sua, lei legge, dorme, lava i cani e dispone le sue cose nei cassetti in un ordine strabiliante.
Quando Anna vuol vedere qualcuno, è lei che lo chiama, ma le sue chiamate sono rare, poichè i suoi amici, gli stessi da vent’anni, si contano sulle dita di una mano. Inoltre, se li vede tutti e cinque insieme, riuniti intorno a lei, le vengono le vertigini e, giudicando intollerabile una comunità così numerosa, trova modo di escluderne qualcuno a turno.
Dei suoi amici è gelosa come di ogni cosa sua, tuttavia è pronta ad abbandonarli se la vita li porta ad amare persone che lei disistima o che, comunque, non vuol frequentare.
«Quando litighi, torna da me», dice all’amico, certa che la passione sia di breve transito sulla Terra, mentre l’amicizia è eterna.
Nelle giornate di ritiro, dal fondo di vecchi cassetti segreti tornano alla luce feticci, fotografie, cinture, orologetti, scialli e mille altre cose che non hanno più valore per nessuno se non per lei che conserva gelosamente anche gli oggetti più inutili come collari di cani scomparsi o sassi e conchiglie raccolti tanti anni fa e che ora accarezza con rammarico o con delizia.
Un’altra occupazione che la distrae è la stesura di lunghe lettere di lavoro che scrive a macchina, con un dito solo, lasciando sui fogli margini tanto larghi da far pensare, lì per lì, a chi le riceve, di trovarsi davanti a una poesia.
Ora, dopo molto tempo che non vedevo Anna, la ritrovo magra, con gli occhi da tigre spalancati nel volto scarno e bruciato e, al solito, pettinata come il dott. Jekyll nel momento della crisi.
Le domando che cosa farà quest’anno e ridiamo subito, insieme, come se ci fossimo detto il perchè.
Una volta le dissi che Anton Giulio Bragaglia stava parlando di lei, urlando che non c’era limite alle parti che la Magnani può interpretare: «Può fare quello che vuole, la regina e la prostituta, la signora e la serva, la vecchia e la bambina, tutto può fare, tutto assolutamente». Anna che mi ascoltava assorta mi disse, allora, decisa: «Infatti quest’anno voglio fare Cavour!».
«Sta tranquilla, non farò Cavour», mi rassicura «anche perchè il grande statista non rientra nel mondo di Tennessee Williams. C’è un segreto, ma è inutile che non lo dica a te. Tennessee è in Italia a scrivere un soggetto per un nuovo film mio. Naturalmente dovrò tornare a Hollywood».
Avevo visto sul suo tavolo da lavoro una foderina da copione in cuoio con il suo nome in oro, applicato sopra. Il dono le era stato fatto dal suo produttore americano, il quale lo aveva accompagnato con un biglietto: «Ad Anna, perchè possa mettervi ancora tanti copioni, tra i quali, mi auguro, qualcuno dei miei».
«Allora l’augurio si è avverato. E hai notizie di come sia andato La Rosa Tatuata?».
Mi indica un mucchio di telegrammi che sono sul tavolo e verso i quali allungo subito la mano. Il primo è di Danny Mann, il suo regista: «La tua interpretazione di La Rosa Tatuata nella visione privata a New Yorik ti ha procurato un successo enorme, al quale sono fiero di aver contribuito. Il mio profondo affetto e la mia ammirazione per la tua grande arte saranno divisi dal mondo intero. Non ti dimenticherò mai. Danny Mann».
Hollywood, dove per lungo tempo non era voluta andare, l’ha conquistata. «Si lavora molto seriamente» mi dice «e le attrici sono protette in tutti i modi dal loro produttore. Non si pensa che al lavoro. Tutto il resto è sbrigato dalla produzione che si fa in quattro per darti la tranquillità che ti è necessaria. Renditi conto, a metà film ho chiesto tre giorni di riposo per studiare una scena di diciotto pagine da girare con Burt Lancaster e il produttore ha messo a riposo la troupe perchè io potessi prepararmi per la scena più importante del film. Burt è un inarrivabile compagno di lavoro. Tutto sempra predisposto perchè si possa lavorare serenamente a Hollywood».
Le chiedo allora, se ha rinunziato a girare film in Italia. «Che vuoi mai? Il mio pubblico è qui e ho avuto tante soddisfazioni dal mio Paese che anche quando lavoro in America penso sempre alla reazione che i miei film avranno in Italia. Non si può rinunziare alla propria Patria, credimi».
Raggiungiamo Luca, il quale, ormai, deve andare a dormire; poi scendiamo verso il mare.
La sera, a San Felice, porta un gioco di stelle che calano a rincorrersi con le lampare. Nel concerto universale i grilli sostituiscono le cicale e nel piccolo porto di Anna le onde si francono sugli scogli in una miriade di pizzi bianchi.
«Il Cellino (chiama così suo figlio) ha spento la luce» dice Anna a voce bassa, dopo aver guardato la finestra lontana, come se temesse di svegliarlo. E continua: «Ti ricordi quando durante i primi allarmi correvamo al rifugio per proteggere il bambino?». Non rispondo e lei aggiunge amaramente: «Non esiste rifugio nella vita».
E. Monti
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