Lo spirito beffardo, la proverbiale franchezza le hanno fatto una cattiva fama: le care nemiche la dicono detestabile – Ma un grumo di sofferenza le trema in gola, per le pene sentimentali, per il figlio ammalato – Ha una casa piena di ritratti suoi che la seguono passo passo, da quando aveva 18 anni, nell’avanzare inesorabile dell’età – Vive appartata, ma quando la solitudine è troppa va con qualche amico in un locale notturno, e allora fa le 5 del mattino
Roma, 2 febbraio
Se cerco nella memoria la espressione più immediata di Anna Magnani rivedo il suo sguardo come affiorante da un gorgo di delusa malinconia.
Eravamo seduti nel suo soggiorno, alto sui tetti di Palazzo Altieri e dalla finestra dilagava la luce del pomeriggio romano. Senza un filo di trucco sul volto scavato, la Magnani mi appariva come l’anti-diva, una donna che non vuole nascondere nulla di sè, come posseduta dalla smania di essere giudicata interamente, per le sue qualità positive e negative.
Indossava aderenti calzoni marrone ed una maglietta dello stesso colore, nefasto per la pelle di qualsiasi donna, anche giovanissima, indifferente che i riflessi dell’abbigliamento incupissero ancora il colorito opaco del suo viso.
Inizialmente mi limitai a guardarla per scoprire nei suoi atteggiamenti la nota falsa, rendermi conto se recitava, ma presto mi convinsi che tutto in lei era spontaneo, dalla battuta aspra all’abbandono quasi svenevole fa i braccioli dell’ampia poltrona.
E sempre, fosse adirata, ironica o sospirosa, mi colpiva la profonda malinconia dei suoi occhi nel cerchio vasto delle orbite livide e mi rendevo conto del prezzo che ha pagato per essere quello che è, una grande attrice ed una infelicissima donna.
La Magnani non ama parlare della sua vita privata; le molte delusioni sentimentali le ha seppellite nel più chiuso angolo di se stessa e la sua sofferenze di madre si rinnova più acuta ogni giorno, quando vede il figlio deformato dalla poliomelite, per avere la forza di parlarne con gli estranei.
Ma il grumo di sofferenza, per quanto nascosto, sempre le trema in gola, persino quando ride rovesciando il capo sulla poltrona, una risata secca, quasi dolorosa, in cui si libera il suo spirito sovente beffardo.
Non ha un temperamento semplice, nè facile, ma nemmeno tanto scorbutico, come molti cronisti mondani hanno scritto, e il suo linguaggio non è quel florilegio di parole irriferibili che le hanno attribuito.
La Magnani è donna di immaginazione vivida e lingua pronta, che sa chiudere nel giro di una frase brevissima le caratteristiche di una persona; o di una situazione, meglio di quanto un caricaturista potrebbe fare con la matita.
Mentre conversavamo, arrivò una sua amica non più di primo pelo, con calze nere traforate ed un abito alquanto frou-frou. «Ti sei conciata da ninfetta!» le disse ancor prima di salutarla ed esplose in una di quelle risate legnose che le alterano la fisionomia.
La sua casa rispecchia fedelmente il temperamento complesso che le consente di essere una grande attrice, e talvolta, una donna detestabile, come dicono le sue nemiche.
Fra quadri non privi di valore, ve ne sono altri scadenti, frammischiati a ninnoli e bibelots d’ogni genere e foggia, gatti e cani di ceramica, trionfi di frutta, statuine.
Su una consolle nell’ingresso troneggia un cavolo di maiolica d’un verde offensivo. Dicono i suoi avversari, che la Magnani odia la giovinezza ed evita il confronto con le più fiorenti colleghe, perchè amareggiata dal proprio declino fisico, e questa mi sembra una cattiveria gratuita.
Raramente accade che un’attrice cinematografica riesca a vincere con la presenza fisica il ricordo che si ha della sua ombra sullo schermo, e la Magnani è una di queste eccezioni.
Di statura media, di forme minute, rivela all’osservazione diretta una bellezza plastica che lo schermo non sa rendere. Anche il suo volto è diverso da quello che ci appare sul telone, meno asimmetrico, illeggiadrito dalla luce che le gioca sulle guance creando penombre e morbidezze impensabili.
«Sono la disperazione degli operatori, mi diceva ridendo, non sanno mai come fotografarmi. Un’angolazione sbagliata, e questi calamari che ho sotto gli occhi diventano borse grottesche».
Così dicendo sollevò il casco di capelli neri ed arruffati che le cadevano fin sulle ciglia e rivolta alla finestra perchè la luce la investisse tutta, mi svelò interamente il volto, incurante delle rughe che già la minacciano, sorprendentemente bella in quell’ansia di sincerità.
Non saprei dire se Anna Magnani è sempre così schietta, coloro che la conoscono a fondo assicurano di non averla mai veduta diversa, sincera e spietata anche con se stessa. In guaio è che non lesina a nessuno la sua franchezza e con una crudezza di linguaggio che dissemina la sua strada di nemici e di occasioni per sceglierla come bersaglio di infinite maldicenze.
«Ho molti torti – mi diceva in tono confidenziale – sopra tutti quello di non sopportare i cretini. Se sono sciocchi a casa loro non mi riguarda, ma quando mi stanno attorno mi danno fastidio e finisce che li anniento».
Il malumore più risentito lo riserva in buona misura per alcuni giornalisti che l’hanno offesa nell’amor proprio scrivendo cose atroci sul suo conto.
«Ci sono colleghi suoi – mi diceva – che si interessano a me soltanto per mettermi in bocca frasi strane o volgari. Non gli interesso io come donna e come attrice, ma come un fenomeno da baraccone, e sarebbero capaci di riferire con tutta serietà se dicessi loro che ho distrutto il Colosseo, o incendiato Roma, come Nerone».
La conversazione proseguiva a sussulti, la Magnani sovente piantava in asso me e la sua amica per rincorrere un gatto d’angora gonfio di pelo color rosa che ci osservava con distacco dalla finestra. «Guardi che bellezza – diceva quasi gridando – nasce dal muso, esplode, diventa gatto ed ha la tenerezza di un canarino che gorgheggia».
Il gatto velava duri occhi di giada, e ripagava l’esaltato entusiasmo della padrona con gelida indifferenza. Anna Magnani si rivolse a noi, desolata, come se dal passato le risorgessero dinnanzi tutti gli urti con cui il destino l’ha ammaccata, e mi ritornava alla mente la pena che la colpisce ogni giorno, del figlio che sfoga su di lei la sua amarezza di ragazzo malato.
Provavo una tenerezza lacerante per questa grande attrice, ammirata e blandita, odiata e villipesa, fallita negli aspetti più semplici ed immediati dell’esistenza, prodiga soltanto con gli altri delle emozioni gale o violente create dal suo faticato magistero d’arte. Avrei voluto dirglielo, ma temevo di sentir echeggiare la sua dura risata beffarda dietro cui nasconde la propria pena.
Si alzò di scatto dalla poltrona ed uscì dalla stanza, camminando come in una parodia del personaggio che la impose al pubblico, la sciantosa di varietà in Teresa Venerdì. Ritornò poco dopo cantando a voce piena una canzone di sua fantasia e reggendo tra le braccia un altro gatto, un birmano color cenere con tutte le estremità, zampe, coda, orecchie e musetto tinti in nero, come se le avesse immerse nell’inchiostro.
Maniaca delle bestie, ospita alcuni gatti di gran razza ed un branco di soriani che la sera le ritornano sudici dalle lunghe gite sulle grondaie. E’ anche maniaca dei propri ritratti, esposti a decine sulle pareti di ogni stanza, alcuni firmati da pittori, illustri come Leonor Fini e Vespignani, altri da modesti accademici del pennello.
Ed anche questo aspetto del suo temperamento dovrebbe smentire l’avversione per le giovani colleghe che alcuni le attribuiscono. Ne possiede uno che la ritrae quando, forse, aveva diciotto anni; gli altri la seguono passo passo nell’avanzare dell’età, una testimonianza irrefutabile del trascorrere del tempo, che la Magnani non vuole nascondere.
Sul tavolino era aperto un copione scritto in inglese, la stesura sommaria del film La visita che girerà l’anno venturo ad Hollywood con il regista Peter Brook e da questo argomento non fu difficile arrivare al suo programma di lavoro, alle sue letture.
In marzo incomincerà con Monicelli il film Risate di gioia, tratto da un racconto di Moravia ed è impegnata a studiarne la sceneggiatura.
Oltre ai copioni, legge di tutto, e in particolare storia delle religioni; da alcuni giorni ha scoperto il buddismo e la metempsicosi. Non si interessa molto alla narrativa, i romanzi l’annoiano. Preferisce leggere opere teatrali e mi parlò del Il gabbiano veduto sere prima al teatro La Cometa privando Cecov della legittima paternità ed attribuendolo a Gorki. «Sto rileggendo tutto Pirandello – disse subito dopo per rifarsi – Accidenti che leone».
La interruppi per domandarle quasi brutalmente perchè lei sola fra tante attrici, sta tanto bersagliata dal pettegolezzo cattivo. «Che vuole che le dica – rispose – non lo so. Forse perchè da noi avere successo è considerato una colpa; forse per questo mio vivere appartato. Ma tutto sommato proprio non mi importa di nulla».
Questa era una bugia, e lo avvertii immediatamente nel tono della sua voce che s’era fatta stridula. La Magnani non sa mentire, a costo di essere sgradevole dice quello che pensa, e se talvolta cerca di tuffarsi nel mare dell’ipocrisia subito si scopre col tono innaturale della voce. Ciò accade di rado, e proprio per questo, penso, ha tanti nemici.
Anche se afferma il contrario, soffre di tanta incomprensione perchè nello sdegnato isolamento in cui costringe la sua esistenza privata e nel modo con cui ne parla si avverte l’ansia inappagata di avere intorno il fiato caldo di molte amicizie sincere. Invece, ne ha pochissime, anche se devote e disposte a sopportare gli scarti repentini del suo umore che passa rapidamente dall’allegria sfrenata alla cupezza.
Esce raramente di casa, la sera riceve pochi intimi, o si sprofonda nei misteri della metempsicosi, in una solitudine più propizia ai ricordi dolorosi che non a quelli sterili del trionfo.
Quando la solitudine le pesa fino a diventare intollerabile, telefona a qualche amico e va con loro in un locale notturno. «In quelle occasioni – disse – faccio le cinque del mattino».
Voleva riderne, ma dai grandi occhi neri, affondati nelle orbite scure, quasi livide, calavano sguardi smarriti di donna infelice.
F. Rosso