Il plebiscito delle condoglianze non ha cancellato l’amarezza della solitudine a cui l’artista era stata condannata da troppi anni
Mercoledì giovedì e venerdì, tre giorni e tutto è passato, il nostro è un tempo che viaggia comunque in fretta e con poco bagaglio, il minimo indispensabile. Ma per Anna Magnani aveva fatto eccezione, sembrava che si volesse fermare.
Ho visto centinaia di persone immobili sotto la pioggia, davanti alla clinica dove Anna Magnani era morta. Non c’era nulla da aspettare, ma loro aspettavano, riscoprendo la poesia delle cose che oggi sembrano prive di senso.
Ne ho visto migliaia ai funerali, la gente che piangeva, quest’altra cosa che non si riesce più a fare, anche perchè non c’è nessuno che se lo meriti.
Anna Magnani se lo meritava, e si è visto. Lo hanno scritto tutti. Lo hanno detto quelli che hanno parlato e soprattutto quelli che hanno taciuto davanti a lei, ognuno con i propri ricordi, e la fatica di capire come mai gli fosse mancata qualcosa soltanto in quel momento, quando aveva saputo che Anna Magnani era morta.
Sabato mattina, con gli ultimi titoli dei giornali, è tornato il silenzio: ma questa domanda è restata dentro di noi, ci resterà ancora per molto tempo e forse non avrà mai una risposta.
«Non era un’attrice», mi ha detto una popolana davanti al cancello della clinica. «Era proprio una donna, ha capito?»
Sembrava volersi scusare per la propria ignoranza e senza saperlo era arrivata più in fondo di tutte le analisi degli specialisti. L’attrice, per definizione e per necessità, è un prodotto artificiale: Anna era un prodotto naturale, genuino al punto di risultare persino sgradevole.
Soprattutto per questo aveva avuto un successo naturale e trionfale negli anni del neorealismo, quando il cinema italiano andava sul serio in cerca della verità.
Per lei “che era proprio una donna” non era difficile raccontare quelle storie vere, così vere che talvolta lei stessa le aveva vissute prima di interpretarle.
Allora non era difficile tenere sospesa sul filo sottile di un telefono la lunga disperazione di una donna che ama e che ha perduto l’amore.
Cocteau poteva esserci arrivato per la strada dell’intelligenza, lei ci arrivava per quella dell’istinto e milioni di altri esseri umani potevano per questo riconoscersi in lei.
Così non era difficile scoprire l’umiliazione di una madre che ha una creatura diversa dalle altre, ma vuol credere che sia come tutti e forse anche meglio, soltanto perchè l’ha messa lei al mondo, e l’adora: anche questa era una storia vissuta, e raccontarla era come sfogarsi, e cercare di chiedere aiuto a qualcuno perchè almeno capisse cosa può esserci dietro a un volto duro e segnato, dentro una voce inasprita dal dolore e dalla segreta paura di abbandonarsi ancora una volta, per sbagliare ancora di più.
Il cinema, in quegli anni, sembrava fatto per lei, e lei sembrava fatta per il cinema: un momento perfetto, che non poteva pretendere l’eternità.
La splendida stagione neorealista finisce. I critici parleranno di evoluzione del fenomeno, ormai avviato ad un populismo che è soltanto deformazione aneddotica dell’assunto neorealista, in parole più povere è il tempo dei film a episodi. In parole ancora più povere, per Anna Magnani, c’è già meno spazio di prima.
E fra poco, negli anni del boom, non ci sarà più posto del tutto.
L’Italia ha dimenticato i travagli del primo dopoguerra e si avvia a diventare – così prevedono gli esperti – addirittura una potenza industriale.
La gente sta bene, quel bene dall’alto del quale si può guardare chi ancora non è arrivato, e si può dire in coscienza che se non è arrivato la colpa è soltanto sua.
Gli uomini di trent’anni si vestono correttamente di grigio, e non vanno più in là delle cravatte regimental, dai colori vivaci ma pur sempre sobri.
Il rappresentante agli esordi cerca di assomigliare per quanto possibile al giovane esecutivo che lavora nei palazzi di acciaio e di cristallo, il giovane esecutivo cerca di assomigliare al direttore generale e tutti, alla sera quando vanno al cinema, vogliono passare due ore allegre.
Vogliono ridere di ogni cosa, magari anche di se stessi, ma ridere come è giusto quando si è lavorato tutto il giorno e si ha diritto a un poco di quella ricreazione che adesso prenderà un nome da materasso a molle, relax.
Anna Magnani avrebbe certamente molte cose da dire, a tutti loro. Ma sono loro che non l’ascolterebbero: e i produttori lo sanno.
Poi passa anche il boom, e le prime nuvole nere di tempesta cominciano a oscurare i cieli azzurri del benessere.
La gente non ha più voglia di ridere come prima. Chi ha conquistato la Seicento già comincia a soffrire perchè troppi altri hanno avuto la Millecento, ed anche la Milletre ed anche la Millecinque: restare in coda sulle prime autostrade, fosse pure davanti a un Maserati, non rende felici.
Qualche cosa si muove, nel mondo del cinema. E’ il tempo delle nouvelle vagues, della contestazione in Brasile, dell’underground in America.
Si direbbe che in questi anni qualcuno dovesse ricordarsi di Anna Magnani. Si direbbe che solo lei, lei che è rimasta così autentica, potesse dare un volto e una voce ai nuovi problemi di cui milioni di uomini delusi dalle felicità artificiali stanno prendendo confusamente coscienza.
Eppure il miracolo non si ripete e l’intesa perfetta del momento neorealista non tornerà più.
Apparentemente, Anna Magnani va avanti a vele spiegate.
Non lavora molto, ma questo potrebbe essere anche la prova che non ne ha bisogno, e che ha raggiunto l’invidiabile posizione di chi può scegliere liberamente quando e come impegnarsi.
E’ andata in America e ha vinto l’Oscar con La rosa tatuata: ma è un trionfo che si porta dentro il sapore amaro della vendetta.
Quando torna in Italia non le manca il lavoro. Glie ne hanno offerto Monicelli, Pasolini, Autant-Lara, e ogni volta i giornali hanno parlato di lei con il rispetto dovuto: dovuto, appunto, che è già qualche cosa di non troppo diverso dalla sopportazione.
Anna Magnani lo sente come una condanna, e lo rifiuta con rabbia. Quando Stanley Kramer le affida la parte della protagonista nel Segreto di Santa Vittoria, la vado a trovare e le domando come mai si è decisa a tornare al cinematografo, dopo tanti anni. E’ un giorno di maggio del 1968, siamo nella sua vecchia casa di Via degli Astalli, a pochi passi da Piazza Venezia.
«Io no ho mai lasciato il cinema», mi risponde come se l’avessi offesa. «E che, lei crede che io non abbia il diritto di lavorare quando e come mi piace a me? Sono stata viziata? Forse. Mamma Roma per chi crede che lo abbia scritto, Pasolini? Per me. E Tennesse Williams? Per chi ha scritto La rosa tatuata e La dolce ala della giovinezza? Per me. Personaggi su misura, mi spiego? E allora mi va. Adesso mi è capitato questo Segreto di Santa Vittoria, me lo ha proposto Kramer, Kramer è un amico e di lui mi fido. E dunque mi va. Io lavorerò sempre e soltanto a questa condizione.»
Nè io nè lei, in quel momento, potevamo sapere che quel film sarebbe stato l’ultimo della sua carriera. Anna Magnani voleva apparire sicura, sprezzante. «Nel film sarò la moglie di un sindaco: un colosso d’uomo, infatti la parte l’hanno data ad Anthony Quinn, ma è sempre indeciso e pieno di paura. Per fortuna ci sono io, accanto a lui, una donna volitiva e coraggiosa».
Per un attimo mi era sembrata soddisfatta di questa specie di rivincita. Ascoltandola, si sarebbe pensato che non avesse mai avuto fortuna con gli uomini. Che forse aveva preteso troppo e che per questo non le era restato mai niente se non quel gusto di giudicarli, tutti insieme e senza pietà.
Eppure non aveva neppure finito di compiacersi che già sembrava pentita.
«Il coraggio…» aveva ripreso. «E come si fa a giudicare il coraggio? Lo sa che io non glie la faccio più a montare su un aeroplano? Lo sa che quando siamo andati a Mosca a dare La lupa, tutta la compagnia si è fatta tre giorni di treno perchè io mi sono rifiutata di volare? Annamo… questo palazzo che vola, ventimila bottoni e c’è uno che deve toccarli e io non lo conosco, e tutto quello che mi sanno dire è che mi devo allacciare la cintura, ma le sembra possibile? E questo perchè? Per fare più in fretta. Sempre più in fretta. E poi?»
La vita le sfuggiva già dalle mani, come un coboldo beffardo e persecutore, capace di qualsiasi incantesimo, pur di farle ancora del male. In quel momento le appariva come un aeroplano, il mezzo del nuovo mondo.
Ma era un discorso più lungo, una paura più profonda di quella – forse soltanto animale – che può prenderle un essere umano rinchiuso in una macchina volante. Era l’aver già capito che è inutile correre.
Era negare una conquista del proprio tempo, il tempo della tecnica, il tempo della massa. Proprio lei, la popolana delle popolane, odiava la massa: perchè le faceva paura, soltanto per questo, naturalmente.
«E’ come una pignatta», mi spiegava con serietà. «Nella pignatta ci starebbe un chilo di fagioli e invece no, ce ne fanno stare due, e poi tre, e poi viene tutta una colla che fa schifo, ma cosa crede che glie ne…»
Un colpo di tosse, al momento giusto. «Vede», aveva ripreso con tutta l’educazione possibile, «vede, a loro non interessa proprio». Ed era inutile chiedere chi fossero questi loro.
Loro erano gli altri, l’orda degli altri che ti sommerge e tu non puoi farci niente perchè sei rinchiuso in un sistema, appunto come si è rinchiusi dentro un aeroplano, e le leggi sono come quelle cinture, non servono a molto di più.
Tutto questo spirito di rivolta, apparentemente, avrebbe dovuto riportare Anna Magnani ad un successo superiore, forse, a quello del periodo neorealista.
Il cinema, proprio da quel mese del maggio parigino, sembrava aver scelto solennemente la strada dell’impegno politico e sociale. La censura, che ancora in quel tempo precludeva ai minori la visione di una pellicola se nel dialogo fosse sfuggita, anche una sola volta, una parolaccia, cominciava a vacillare sotto una nuova pressione libertaria.
Ma per Anna Magnani non era una strada aperta. Proprio lei, che aveva scandalizzato i benpensanti con la sua continua provocazione, era poi più intransigente di loro. Loro avrebbero accettato anche la volgarità fine a se stessa, quella volgarità che è caratteristica degli stupidi e dei violenti: lei la detestava. «Io diffido da l’imitazioni» mi diceva.
E sembrava che se la prendesse con quelli che, al cinema e in televisione, abusavano del dialetto romanesco per dare una credibilità popolana a squallidi discorsi: ma non erano in causa soltanto i falsari del dialetto.
Il suo risentimento investiva tutta la falsità, e soprattutto quella di un certo tipo di “impegno“.
«Sò ricchi a migliardi», diceva, «e poi vanno a dì del popolo lavoratore, ma non se vergogneno proprio?»
Di questa nuova ipocrisia il cinema italiano aveva già fatto le prime esperienze, avviandosi all’inevitabile soluzione finale della violenza e della pornografia contrabbandate e con l’alibi della cultura.
Anna Magnani non avrebbe nascosto il suo disprezzo profondo per questo cinema nuovo, «che poi non è neanche cinema, è soltanto ‘na cosa zozza».
Parole inutili. Il tempo continuava a correre, Anna Magnani restava sempre più indietro, Cassandra dolente e non ascoltata, oppure ancora umiliata e offesa.
Anche il teatro le voltava le spalle. Nel giugno scorso avrebbe dovuto avere una parte importante, la parte di Ruth, nel Ritorno a casa di Harold Pinter. Franco Enriquez, direttore del Teatro di Roma, la liquidò sostenendo che Ruth aveva trent’anni e che «tutto poteva essere opinabile, ma non fino al punto di affidare una parte come quella ad Anna Magnani»; una donna che ne aveva più di sessanta.
Anna gli rispose con una lettera indignata e furente, su un giornale romano.
«Nè il pubblico di ogni Paese», scrisse, «nè il regista Zeffirelli quando ho interpretato La lupa, si sono chiesti quanti anni avrebbe dovuto avere quel personaggio e sono sicura che neanche Verga se lo sarebbe domandato.»
Le arrivarono centinaia di lettere di solidarietà, era gente che forse non sapeva molto di teatro, ma aveva capito che era stata fatta qualche cosa di male, ingiustamente.
Anche i colleghi le scrissero, almeno qualcuno. Altri le telefonarono, era più prudente.
E altri ancora non le telefonarono neanche, ormai non valeva più la pena di farlo, Anna Magnani era soltanto una vecchia che non sapeva rassegnarsi: un po’ di decoro, suvvìa, a quell’età.
Qualcuno, in questi giorni, ha provato qualche rimorso. Troppo tardi.
Per una misteriosa coincidenza, la stessa sera della morte, venti milioni di spettatori avrebbero rivisto Anna Magnani alla televisione, nell’ultimo dei suoi lavori per il piccolo schermo.
L’attrice aveva finito di girare quel telefilm proprio il giorno di Ferragosto sulla scalinata dei mercati traianei.
Recitava la parte di una popolana che si vede morire fra le braccia il marito, un cospiratore del ’70, appena liberato dalle carceri pontificie: recitava come nei suoi tempi migliori, calata nella sua parte con tanta furia e tanta pietà che piangeva le sue lacrime vere, stringendo quell’uomo che era morto soltanto per finta, e accanto aveva un bambino di dieci anni, suo figlio, anche questo soltanto sulla scena.
Nessuno, fra la folla che quel giorno di Ferragosto era restata per ore sotto il sole implacabile per vederla recitare, aveva pensato che una donna di 65 anni può avere un nipote, più che un figlio di 10 anni.
E nessuno se n’è accorto nemmeno quella sera di mercoledì davanti al televisore, nessuno fra venti milioni di uomini e di donne.
Anna Magnani, in quel momento, era già molto lontana da qui. Aveva dato la sua grande serata di addio, se ne andava.
Se ne andava così presto, in un mondo diverso dove c’è qualcuno che vede tutto da sempre e che non ha bisogno di chiederti nulla, neppure la data di nascita.
G. Grazzini