L’intellettualismo del testo riscattato dall’appassionata interpretazione dell’attrice — La regia di Giancarlo Menotti
Una Medea tira l’altra: dopo la ripresa di Corrado Alvaro, la prima italiana (ritardata) di Jean Anouilh, il prolifico drammaturgo francese la cui reinvenzione dell’antica tragedia risale a vent’anni or sono, come scrittura, e al 1953 come spettacolo.
Forse si tratta di un obliquo contributo al dibattito attuale sulla questione del divorzio e sulla crisi della famiglia. Ragioni più stringenti, al di là dell’occasione che è offerta a un’attrice del temperamento di Anna Magnani, non arriviamo a vederne, per questa messa in scena.
La Medea di Anouilh è, in definitiva, proprio il dramma dell’usura di un legame coniugale, nutrito un dì dall’impeto dei sensi, e insieme dalla fratellanza nata in clamorose avventure: dalla complicità, anche, negli atroci delitti che hanno accompagnato la conquista del Vello d’Oro e la successiva fuga della temeraria coppia, sino a Corinto.
Qui, passato ormai un decennio, Giasone è l’eroe imborghesito, che aspira alla tranquillità e vuol «sistemarsi» con la figlia del re Creonte: Medea non ha luogo nella nuova, placida vita ch’egli si propone, già entro la penombra opaca della senilità: la selvaggia figlia del Caucaso resta attaccata al tempo delle imprese, dei pericoli, delle mani macchiate di sangue, del nomadismo.
Nemmeno lei, in fondo, accetterebbe di seguire il suo uomo in quella impigrita dimensione casalinga che da lui è vagheggiata; cosi come sprezza la piccola, miserabile filosofia della Balia, per la quale una pausa nelle faccende domestiche, e magari un buon bicchiere di vino, sono tutto quanto si possa desiderare.
C’e da aggiungere, nella protagonista, una notevole componente freudiana, un complesso di castrazione che farebbe la gioia di qualsiasi psicanalista: I’odio ch’ella prova per Giasone, quando sa del suo tradimento, scaturisce soprattutto dalla vergogna di essere stata, troppo a lungo, la femmina in attesa del maschio, la terra aperta all’aratro e al seme.
Medea ha cercato anche altri amori, ma ne ha tratto un senso supplementare di umiliazione: pensa, con spasimo, che cosa avrebbe potuto fare se avesse avuto caratteri virili.
Ed ora tutta la sua energia, la sua volontà si applicano a uno scopo mortale: contro la promessa sposa di Giasone e il padre di lei, contro i figli propri e di Giasone: contro se stessa, infine.
Più che affrontare il mito con moderna coscienza (ciò che gli era riuscito forse in Antigone), più che adattarlo senz’altro a stampi morali e psicologici contemporanei (come in Euridice), Anouilh se ne serve qui quale veicolo per il suo perenne spaccio, all’ingrosso e al dettaglio, di temi e problemi appartenenti alla sfera d’influenza del pensiero esistenzialista: ma in lui degradati al livello di un intellettualismo bottegaio.
Una cosa gli va tuttavia riconosciuta, ed è l’accorta misura teatrale: per cui la divisione in due di questo lungo atto unico (ben tradotto da Gerardo Guerrieri) già risulta indebita e stridente, così come la solennità operistica del movimento impresso dal regista Giancarlo Menotti ai personaggi, e dello stesso impianto scenografico di Rouben Ter-Arutunian (ma i costumi pastorali sono belli e congrui all’argomento).
Menotti, d’altronde, ha lavorato piuttosto sui margini del testo, che sul suo nucleo: affidandosi, a tale riguardo, quasi del tutto alla singolare presenza e forza interpretativa di Anna Magnani. Si potranno percepire, nella sua recitazione, incertezze, sbalzi di tono, indugi eccessivi: ma I’insieme ha un suo fascino, al quale pare difficile sottrarsi.
Anouilh non ha probabilmente creduto a una sola parola, delle tante che ha scritto: Anna Magnani crede appassionatamente in Medea, nella sua angoscia di donna abbandonata. invelenita, che si afferra con le unghie e coi denti all’ultimo resto di giovinezza.
Il corpo mortificato da una lunga veste che ha qualcosa del saio, la chioma famosa sempre più scarmigliata, gli occhi febbricitanti nel viso incupito, sovrappone la sua realtà di dolente creatura umana all’arzigogolo letterario di Anouilh.
Anche il virtuosistico monologo che evoca, a giustificare l’imminente gesto omicida e suicida, la terribilità di un mondo nel quale non c’è che «accoppiamento e carneficina», s’intride di una inconsueta verità.
Dietro Medea, accovacciata e rannicchiata nella sua solitudine, intravediamo per un momento l’eroina di Roma città aperta ormai divelta dalla dialettica straziante ma esaltante della storia, immersa nell’incubo metafisico di una natura insensata, di un universo brutale, senza principio e senza fine.
Anche gli altri attori, nei limiti delle loro parti, hanno dato dimostrazione di un impegno serio ed efficace: da Osvaldo Ruggieri — che è Giasone — calibrato, persuasivo, sobrio —, a Cesarina Gheraldi, che disegna con pungente esattezza la figura della Balia, a Fosco Giachetti, Creonte dignitoso e sicuro, a Lorenzo Terzon e Italo Bellini.
Successo in crescendo dall’inizio alla conclusione dello spettacolo, con un grande applauso e numerose chiamate al termine, anche per il regista. Si replica, al Quirino.
A. Savioli