Seconda parte del memoriale che Anna Magnani ha dettato al giornalista Louis Valentin
Ho scelto questo mestiere perchè non ho mai voluto dipendere da nessuno. Ma no, cosa dico? Le cose non stanno proprio così.
Ho scelto questo mestiere perchè avevo voglia di essere amata, di ricevere tutto l’amore che avevo sempre mendicato. Ecco, ci risiamo, è il solito dannato complesso materno. Riuscirò mai a liberarmene?
I miei inizi? E’ difficile limitarsi a dire: «Ho cominciato a fare del teatro il …». Le parole non bastano, non dicono tutto.
Come si fa a descrivere, parola per parola, i colori, gli odori dei ricordi, il teatro vuoto dopo lo spettacolo, il panino mandato giù in fretta e furia, l’odore del sudore nei camerini di provincia, il rubinetto del lavandino che sgocciola tutta la notte e ti fa impazzire, quelli del piano di sopra che fanno l’amore, le stanze ammobiliate, gli altri 200 chilometri che devi fare in treno, le prove, il sonno che non arriva, il bottone da attaccare, il trac, la pioggia, il lavandino ingorgato?
ADDIO, NONNA
Ad ogni modo, per la biografia di Anna Magnani, posso dire… Vediamo.
Iscritta a quindici anni alla scuola drammatica che portava il nome di Eleonora Duse. Vi studia per un anno storia dell’arte e del teatro sotto la guida dei professori Silvio D’Amico e Ida Carloni Talli (moglie dell’impresario-attore Virgilio Talli, lo scopritore di Eleonora Duse).
Scritturata a sedici anni e mezzo da Vera Vergani e Dario Niccodemi nella prima compagnia italiana. Ruoli importanti? E come no? Deve attraversare la scena come un lampo dicendo: «Signora, la cena è servita».
Scoraggiata, crisi di depressione e sconforto. Piange. Ma la fortuna le sorride. La primattrice si sposa in Argentina, e Anna Magnani prende il suo posto. E’ questo il vero esordio. Vera Vergani le dice: «Sei la più brava», eccetera, eccetera.
Conosco l’Italia e tutte le stazioni ferroviarie. Ma quella che non potrò mai dimenticare è la stazione Termini di Roma.
Era inverno, non pioveva, ma faceva freddo, e tutti avevano fretta di andare a casa. La nonna mi accompagnò fino al treno.
Partivo per una nuova tournée. I facchini ci spingevano, le locomotive fischiavano come bestie impazzite. Salii sul treno e, dal finestrino, salutai la nonna. Non potevamo più parlarci. Guardavo il suo viso piccolo, i suoi capelli nascosti dallo scialle nero, così belli… E in quel momento capii che non l’avrei più rivista.
Mia nonna morì sei mesi dopo. Tornai di corsa. Mi chiesero se volevo vederla sul letto di morte, ma dissi di no. Credo che anche lei avrebbe preferito che il mio ricordo fosse quello di Reginella piccina adorata.
Da quel giorno ebbi il coraggio di ribellarmi, di far uscire da me stessa quello che prima era sempre rimasto nascosto, di gridare quando ne sentivo il bisogno, di tacere quando ne avevo voglia. Sì, quel giorno era nata “la Magnani”.
A diciannove anni una ragazza sboccia, diventa civetta, forse più sensibile. E’ naturale, no? A diciannove anni mi innamorai dell’uomo che poi avrei sposato, Goffredo Alessandrini. Accadde a Milano.
Recitavo all’Arcimboldi, un teatrino senza pretese. Gli attori non erano pagati, ma ce la mettevamo tutta lo stesso. L’Arcimboldi era una specie di teatrino d’essai. E fu là che lo incontrai. All’uscita, mi invitò al ristorante, un ristorante di gran lusso, dove avevo spesso sognato di andare, ma che non mi potevo certo permettere.
Mi parlò a lungo di sé. Era nato in Egitto, nel Paese dove viveva mia madre. Era figlio di un ingegnere che aveva costruito una grande diga in Egitto. Seppi anche (per ascoltarlo, quasi non toccai cibo) che era regista cinematografico e che era venuto a Milano per il doppiaggio di un film inglese.
Era elegante, raffinato. Aveva studiato a Cambridge. Cambridge, vi rendete conto? Alla fine della serata ci lasciammo con un semplice arrivederci. Mi dispiaceva doverlo lasciare, avrei avuto una voglia matta di rivederlo. Lui non disse niente, e io, orgogliosa come sono sempre stata, non gli chiesi niente.
Ripartii in tournée con la compagnia che mi aveva offerto il mio primo ruolo. Paga non ce n’era, ma non era certo questione di paga. La compagnia tentava la fortuna, e io la tentavo con lei. Volevo vedere se ero capace di fare qualcosa di buono. Mi dicevo: “Se non va, non farò mai più del teatro”.
Perchè, vedete, a me non piace tentare una cosa e fallire. Avevo accettato di far parte della compagnia per mettermi alla prova.
LE FEDI DIMENTICATE
Una sera, al teatro Manzoni di Milano, Alessandrini entrò nel mio camerino. «Cerco una voce per doppiare Greta Garbo», mi disse «e ho pensato a lei».
La Garbo, non so se rendo l’idea. E lui aveva pensato a me. I casi erano due: o era matto lui o ero matta io.
Due mesi dopo, seppi che aveva inventato la storia della Garbo per rivedermi. Potevo serbargli rancore? No di certo, ne ero troppo innamorata.
Al teatro non pensavo neanche più, anzi non pensavo a niente di niente quando mi sentii chiedere: «E se ci sposassimo?». Gli risposi di sì come un automa. Gli avrei detto di sì anche se mi avesse chiesto di buttarmi con lui nel Tevere.
Secondo le cronache mondane, i matrimoni in genere sono una cosa grandiosa, con etichette e protocolli. Il mio, mi dispiace per gli estimatori di questo genere di cronache, non fu così.
Avvenne a Roma, in municipio. Ricordo gli uscieri, le scale con le ringhiere di ottone, i tappeti.
Il sindaco, drappeggiato in una sciarpa tricolore che sembrava un pareo, doveva essere dimagrito di almeno trenta chili nella notte. Il suo povero collo, irritato dal rasoio, navigava nel colletto della camicia. La testa si muoveva di qua e di là, mentre il collo restava immobile. Il pover’uomo doveva pensare che fossimo matti da legare.
Eravamo arrivati on mezz’ora di ritardo, perchè mio marito aveva dimenticato a casa le fedi, e adesso, guardando il sindaco, non riuscivamo a trattenere le risate, come scolaretti davanti al maestro.
Alla fine della cerimonia, il suo collo si fermò. «Ma lei è Anna Magnani», mi disse. «Come mai oggi non recita?». (In quel periodo recitavo a Roma). Non potevo dirgli che non recitavo perchè mi stavo sposando. Questo doveva saperlo, no? Gli promisi che gli avrei procurato dei biglietti per lui, sua moglie, sua sorella, suo zio, sua nonna e tutti i nipotini. Quel giorno avrei promesso biglietti al mondo intero.
Ci augurò un felice viaggio di nozze. No, non andammo a Venezia, né ai piedi dell’Himalaya, né in Riviera. Ci limitammo ad andare al caffè Rosati, dove mangiammo dei “cialdoni” e bevemmo un caffè. Poi, ognuno per conto proprio, andammo a lavorare.
Accanto a mio marito ho conosciuto sette anni di felicità, di gelosia, di dubbi e di collera.
Volevo essere una brava moglie, occuparmi di lui, della mia casa, fargli da mangiare. Abitavamo nel suo studio di via Margutta. Non avevo niente da fare tutto il giorno, perchè della casa si occupava una domestica. L’ho spesso invidiata.
Avrei tanto voluto essere io a preparare la cena, per poi gustare in tête-à-tête le mie creazioni gastronomiche.
Quanto a lui, non pensava che a giocare con me. Mi trattava come un bebé. Tutto ciò che dicevo, tutto ciò che facevo, lo divertiva. Sorrideva sempre. Mi lasciava fare tutto quello che mi passava per la testa, e io continuavo a cambiare posto ai mobili. Era il mio modo di viaggiare.
PAZZA DI GELOSIA
Una sera rientrai verso le otto. Lui era già a casa. Mi guardava con aria sorniona, e stava zitto. «Cosa c’è Goffredo?», gli chiesi. Silenzio. Cominciai a guardarmi in giro, alla ricerca di quello che poteva esserci di nuovo nel nostro appartamento. Un nuovo regalo? No. Un nuovo oggetto? Neanche. Quale diavoleria poteva avere inventato?
Entrai in camera da letto. Fantastico! Aveva tappezzato il nostro letto di biglietti da diecimila lire, tutto il denaro che aveva guadagnato e messo da parte per me, per noi. Ecco com’era mio marito Goffredo Alessandrini.
A diciannove anni una ragazza diventa sensibile, troppo sensibile dovrei dire. Più tardi, quando seppi che mio marito aveva delle avventure galanti e usciva con altre donne, per poco non impazzii. Goffredo mi aveva già tradita, se è per questo, ma era stato prima del matrimonio, e io lo avevo perdonato. Ma adesso no, non potevo. Minacciai, urlai, piansi, mi disperai. Ero al fondo della disperazione. Non mi restò che la separazione.
In tutta onestà devo dire che Goffredo è stato un buon marito. Posso odiarlo perchè un giorno mi ha preferito altre donne? No. La colpa è mia, solo mia: avrei potuto far finta di niente, chiudere gli occhi, ma io non posso, la mia natura me lo impedisce.
Quando un uomo ti ha offerto la felicità, quando ti ha detto: «Tu sei tu, per questo devi avere fiducia», quando ti ha dato la gioia di amare, non puoi né dimenticarlo né odiarlo; e se ha bisogno di te, devi essere là, accanto a lui.
Quando Alessandrini, qualche anno fa, me lo chiese, fui la protagonista di un suo film. Il produttore non aveva soldi per pagarmi. Accettai ugualmente. Goffredo era stato mio marito: il meno che potessi fare era aiutarlo, no?
Da sposata, non lavoravo (interpretai soltanto Anna Christie e La foresta pietrificata). Perchè? Ma perchè ero la moglie di mio marito, no? Non potevo essere contemporaneamente attrice e moglie. Però andavo a vedere recitare gli altri.
Ed è stato in questo modo che ho imparato che niente è più vero che essere veri e che bisogna eliminare la barriera tra il pubblico e l’attore. Il pubblico! Bisogna farlo salire sul palcoscenico, strapparlo alla sua poltrona, renderlo partecipe da vicino, il più possibile.
Goffredo ed io, quando ci separammo, non eravamo tristi, perchè tra noi si era creata un’amicizia che dura e durerà sempre.
Il giorno della separazione, Goffredo mi regalò una cavalla. «Te la regalo perchè ti assomiglia», mi disse. «Ha una groppa generosa, e le gambe storte e magre». Era bellissima. Si chiamava “Via dell’Impero”, e non riuscii mai a domarla veramente. Partiva come una pazza, mi tagliava le braccia e le mani, ed io gridavo: «Figlia del diavolo, tu forse non sai che anch’io sono il diavolo. Ti stanchi, mi stanchi, ma alla fine vincerò io».
Quando nacque mio figlio, fu un gran giorno. In clinica avevo paura, paura di tutto il male che avrei sofferto per questo figlio che non conoscevo ancora.
Sudavo, sudavo. Aggrappata disperatamente al tavolo operatorio, sentivo il sudore scorrermi lungo i fianchi e gridavo come un’aquila. La gola mi bruciava, da impazzire. Come mi hai fatto soffrire, figlio mio. Poi tutto è tornato normale, e io stavo proprio bene.
«E’ un maschio signora». «Voglio vederlo subito», dissi all’infermiera. Il dolore era sparito, ero tanto felice.
L’infermiera me lo porgeva. Com’era bruttino, povero caro. Ma anche carino, quasi bello. E’ bello, mio figlio. Tutte le donne se lo mangiano con gli occhi.
Non avevo soldi, ma non me ne importava niente, perchè il mio Luca rideva, rideva sempre alla sua mamma.
Ricominciai subito a lavorare. Poi, e queste sono le ingiustizie della vita, dovetti separarmi da lui. Luca partì per la Svizzera, e io mi sentivo come quando era morta la nonna. Non riuscivo a dormire, la notte. Aveva solo tre anni e mezzo, ed era tanto malato. Separarsi così. Che cosa orribile.
Di fronte alle malattie si grida, ci si arrabbia, si ha voglia di soffrire, di morire. Si cerca di illudersi, di dirsi che tutto passerà. Non c’è proporzione tra la dolcezza di un attimo di tranquillità e l’eternità di un attimo di infelicità.
Oggi Luca è un uomo. Forse ha nei miei confronti gli stessi sentimenti che io provavo per mia madre. Ma io non volevo lasciarti, Luca, non volevo abbandonarti, lasciarti partire. Un giorno capirai che la nostra separazione era necessaria.
Perchè tanta ingiustizia? Oggi ho paura del tuo silenzio, che è stato il mio; della tua solitudine, che è stata la mia; del tuo carattere difficile. Dimmi che la tua è soltanto una crisi momentanea, come quelle che avevo io quando volevo “conquistare mia madre”. Passerà, vedrai.
Io chiedo di poter vivere il più a lungo possibile vicino a mio figlio. Ho paura della morte, una paura terribile. Quando te ne vai, non c’è nessuno che può sostituirti, è un’ingiustizia.
Dio esiste, e quando tutto sarà finito, Dio continuerà a vivere senza di me. Io credo che tutti noi siamo un piccolo pezzo di Dio, una cellula ridicola, piena di orgoglio, egoismo, paura, sensazioni, pazzia.
Nel palazzo dove abito a Roma, palazzo Altieri, c’era un vecchio molto malato. Gli restava poco da vivere.
La gente non lo poteva vedere, e lui odiava tutti. Dicevano che era matto perchè amava la solitudine e gli animali.
Nella sua squallida stanzetta, allevava sei gatti. «Bestie del diavolo», dicevano i vicini. A me quel vecchio piaceva. Aveva così poco tempo da vivere ancora, poveraccio.
Un giorno seppi che il vecchio aveva una malattia infettiva e che non poteva più uscire. Andai a trovarlo. «Perchè non vuole andare all’ospedale?», gli dissi. «Mi occuperò io dei suoi gatti».
«Se ne vada!», mi gridò risentito. «Io non voglio andare all’ospedale. Tutti mi odiano, e se me ne vado si prenderanno la mia casa, e io finirò in mezzo alla strada. Se ne vada».
Andai dalla padrona di casa, le feci rinnovare il contratto d’affitto, per dieci anni, e pagai io, anticipato. Ritornai dal vecchio. «Adesso lei può andare all’ospedale tranquillo», gli dissi. «Vede qua le carte? Lei può star qui per dieci anni. Nessuno potrà mai mandarla via».
Mentre parlavo, il vecchio accarezzava uno dei suoi gatti: «Totonno, che ne dici, devo andare? Ma tu resterai solo, povero Totonno».
«Me ne occuperò io».
«E va bene. Totonno, me ne vado. Ti affido con gli altri gatti alla signora. Comportati bene, mi raccomando. Vedrai che tornerò presto».
Si fece ricoverare. Io, senza perdere tempo, chiamai i muratori, feci rifare il pavimento di quella stamberga, sistemare un lavandino, dipingere i muri, installare il riscaldamento.
Sei mesi più tardi, il vecchio tornò. Andai a prenderlo in strada e insieme, lentamente, salimmo le scale.
«E’ stato buono Totonno?», chiese subito. Aprii la porta della sua stanzetta tutta nuova e aspettai con ansia le sue reazioni. «Allora, le piace? Non è bello?».
Si sedette sul letto. Mi disse: «Era meglio prima, signora. Mi sentivo a casa mia. Perchè tutto questo?».
ODIO GLI IMBECILLI
Ecco, vedete, non è possibile aiutare gli altri, nè essere aiutati. Bisogna sopportarsi così come si è, senza cambiare niente.
E tuttavia, se potessi, cambierei tante cose… le mie gambe, il mio naso. Ma nessuno può aiutarmi, neanch’io posso aiutarmi.
Ho creduto in Rossellini, ho vissuto con lui e credevo che tutto fosse ancora possibile. on era vero.
Si è parlato della “guerra dei vulcani” quando Roberto girò Stromboli e io, contemporaneamente, Vulcano.
Si è detto tutto sulla mia vita, e io ho sempre rifiutato di parlare. Adesso, se mi sono decisa a farlo, è solo perchè voglio ristabilire la verità
Ci sono stati altri uomini nella mia vita, lo confesso, ma non mi hanno mai dato niente. Uno solo ha contato veramente, e di lui vi ho già detto tutto. E allora, perchè inventare tante storie, tanti scandali?
Un certo tipo di stampa si è divertita alle mie spalle. Be’, questi sono i casi in cui mi arrabbio veramente.
Solo gli imbecilli hanno il potere di farmi imbestialire. Mancano di sensibilità. Non è colpa loro, certo, ma perchè hanno il diritto di vivere? Come si permettono di giudicare? Non sono niente, non saranno mai niente. Però mi fanno male, tanto male, e mi vien voglia di ucciderli, di scorticarli. Ecco sì, di scorticarli. Io non odio i cattivi, a patto che lo siano veramente, autenticamente.
Mi piace la gente che è quello che è. Se uno è buono, faccia il buono, se è cattivo faccia il cattivo. Ma con onestà, senza furberia.
LE MIE COLLERE
Oggi sono sola, ma non del tutto. Ci sono, grazie a Dio, il muro di una stanza, il verde di un albero o di un prato, il cielo blu.
Posso passare anche mezz’ora a guardare una formica… e spesso mi domando, conoscendo quello che le succederà nella vita, se non sarebbe meglio che la prendessi in mano, tra il pollice e l’indice, e stringessi, stringessi, stringessi.
Ma perchè poi uccidere la formica? Ho cercato a lungo una risposta a questa domanda, e alla fine credo di averla trovata.
Non è la formica che volevo uccidere, ma me stessa. La colpevole non era la formica, ma sono io e tutti quelli che rifiutano la realtà vivendo una vita che non è la loro. Ci si crede equilibrati, sicuri dei propri pensieri e dei propri gesti. Poveri pazzi!
Un giorno ci si sveglia e ci si rende conto di essere sempre vissuti in una pelle che non era la nostra. C’è da impazzire, c’è da ammazzare. Ma ammazzare è proibito, e allora ci si vendica sulla formica.
Oggi, se muoio, voglio che si sappia che per tutta la vita mi sono arrabbiata per questa menzogna, ma non era rabbia, era amore. Non è forse amore, il volere che il mondo intero viva senza ingannarsi?
Ho detto che ho paura della morte. Non è vero. Quello che mi atterrisce è di sparire da un momento all’altro, improvvisamente, senza essere riuscita a sapere chi era veramente la Magnani, o meglio chi era la piccola Anna.
Ma io so chi era. Una piccola bugiarda che viveva nel sogno per non dover affrontare la realtà. Senza madre, senza padre, mi sono trasformata in formica.
Ho recitato la parte dell’aggressiva, ma non lo ero. Di qui le mie collere.
Ho recitato la parte della pavida quando invece ero un leone. Di qui le mie collere.
Ho recitato la parte della coraggiosa quando invece ero un agnello. Di qui, ancora, le mie collere.
Povera pazza!
Se oggi dovessi morire, sappiate che muoio ricca perchè ho capito tutto questo. Sappiate che le mie collere erano solo rivolte contro di me.
ADESSO SONO PRONTA
Ho anche capito che non ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza in meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per questa lacrima, ho implorato questa carezza.
Se oggi dovessi morire, sappiate che ci ho rinunciato. Ma mi ci sono voluti tanti anni, tanti errori.
Se la morte mi spaventa ancora un po’, è perchè sono come Don Chisciotte e vorrei che ciascuno potesse essere se stesso per potere poi morire in pace.
Un giorno ho visto una madre tremare perchè il figlio tardava a tornare a casa. L’ho consolata, poi mi è scoppiata una delle mie crisi di collera. Aveva il diritto, quella donna, di preoccuparsi? Aveva il diritto di tremare per il figlio? La verità è che aveva paura, che ingannava se stessa. Non voleva ammettere che, quando aveva l’età di suo figlio, anche lei era arrivata a casa tardi perchè aveva incontrato dei ragazzacci che l’avevano picchiata. E adesso non era inquieta per il figlio, ma per la ragazzetta che era stata lei e che aveva avuto paura sotto le botte di quei disgraziati.
Ecco quello che mi fa paura della morte, non poter essere più lì a dire a tutti quelli che muoiono: «Alt, voi mentite».
Quanto a me, sono pronta. Ho lavorato molto per prepararmi.
Ho lottato, ho urlato alla vita, e oggi posso sorridere alla morte. No, non mi inchinerò all’ultimo momento davanti a un Crocefisso. Lo guarderò come un altro me stesso che è morto solo, perchè un giorno su questa terra nessuno possa più mentire.
Lo so, la gente intorno a me sarà triste, ma io non lo voglio.
Voglio che si possa dire: «La Magnani ha fatto quello che ha potuto, e neanche troppo male».
Voglio che la gente si asciughi le lacrime e pensi di me: «Fino alla fine si è battuta perchè la sua vita avesse un senso».
Quando i miei occhi si chiuderanno, voglio che la gente sia felice, perchè ho sempre vissuto per potere un giorno accettare una morte semplice e dolce come quella di mia nonna. E quel giorno, come ultimo desiderio, vorrei che nelle scuole tutti i bambini cantassero in coro: “Reginella piccina adorata”, la vecchia canzone napoletana che cantavo a voce bassa , come la cantava mia nonna.
Anna Magnani
(testo raccolto da L. Valentin)
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