«Ma che me ne frega del vitino»: in mezzo a tante dive, a tante statue, bambole di carne sempre stremate dalla lotta per la ruga in agguato, la Magnani era anche la donna – e ce ne vuole di coraggio, soprattutto facendo quel mestiere – che si scarmigliava i capelli, non si curava del vitino, e offriva la faccia segnata in cui capeggiavano due lucidi occhi nerissimi.
Lei che ha cominciato a fare del cinema a trent’anni e che non ha voluto imbalsamarsi sotto strati di cerone è stata messa da parte anche per questo.
Mentre in altri paesi Katherine Hepbur, Lauren Becall, Jeanne Moreau, Bette Davis trovano ancora spazi nei ruoli degni della loro bravura, Anna Magnani preferì l’isolamento e il rifiuto, alla malinconia di accontentarsi delle parti inadeguate che le venivano offerte da ultimo.
Fosse stata un uomo, il suo destino di lavoro sarebbe certamente stato diverso: nessuno domanda agli attori di restare giovani, e di non avere rughe. Anzi sono tutti disposti a non farci caso.
La gente che impazziva per il Marlon Brando giovane e impavido di “Fronte del porto”, lo accetta segnato e bolso in “Quemada” come in “Ultimo tango”.
Ma per le donne è diverso: a loro si chiede sempre e comunque di essere belle, non si perdona il primo accenno di maturità, le si costringe a mummificarsi nei panni di avvenenti trentenni, pena l’esilio dal lavoro.
Se il cinema ci ha abituati alle “donne” come fossero oggetti, riflettendo un atteggiamento e un’ideologia correnti, è incredibile pensare che questa legge, già sbagliata per chiunque, possa essere stata applicata anche per la Magnani che non era solo una “bella presenza”, ma un’attrice bravissima.
Nessuno può rimpiangere o compatire o stupirsi se una miss Italia, arrivata al cinema solo in virtù della sua bellezza sparisce dal set quando le sue grazie si appannano. Ma è impensabile che lo stesso metro sia applicato anche per chi, come la Magnani non ha mai puntato sulla “bellezza”, lei che con quel volto intenso e diverso “bella” lo era più dei tante altre.
E invece è successo così.
Un regista, questa estate, andò nella sua casa del Circeo per parlare con lei di un film sulla “condizione femminile“. La Magnani era già a Roma, già ammalata e prossima al ricovero in clinica, cambiata nel carattere e assai meno nel fisico. E nonostante il suo viso conservasse la carica drammatica e umana dei primi film, e semmai la restituisse accresciuta, pure per lei il cinema non aveva più posto.
Colpevole di non essersi piegata alla più vieta e usuale immagine femminile, e di aver mostrato la sua faccia segnata, ma neppure tanto, senza cercare di cristallizzarsi, la Magnani ha pagato, anche lei, – che rispetto a tante donne è stata una privilegiata – lo scotto della sua “condizione femminile”.
Pensateci, era la nostra più grande attrice drammatica. E provate a immaginarvi qualcuno che fra dieci anni dica, per esempio a Gian Maria Volontè: «Guardi, lasci perdere, ha i capelli bianchi, è un po’ ingrassato, lei non chiama più».
E chi parla del carattere difficile della Magnani, delle sue malinconie, a volte dei rancori, del suo amore per gli animali «che loro sì, non mi hanno delusa» e si domanda il perchè, non sottovaluti questa amara e semplicissima verità, questa usuale e quotidiana violenza subita da tutte le donne e alla quale anche lei non ha potuto sottrarsi.
P. C.