La sera di venerdì 18 dicembre davanti alla scalinata che porta al Teatro del Casinò, si fermarono alcune automobili targate Modena, Reggio Emilia, Milano e perfino Roma.
Ne scesero signori e signore già in abito da sera. Guardarono lo striscione rosso messo di traverso sulla “locandina” gialla; lessero che la prima della rivista Chi è di scena era stata rimandata alla sera dopo per “ragioni tecniche” e cominciarono a protestare a voce alta.
Avevano fatto chilometri e chilometri per godersi lo spettacolo e, una volta arrivati, proprio in tempo per non perdere nemmeno le prime battute, scoprivano che avevano corso inutilmente.
Ci volle tutta l’abilità diplomatica del commendator Tagliabue, uno dei gestori del Casinò, perché la protesta non diventasse troppo clamorosa.
Finse di essere arrivato anche lui proprio in quel momento e di aver già reclamato; la sua sfuriata fu un buon calmante: “Siamo tutti nelle stesse condizioni, purtroppo: siamo arrivati per la prima e la prima è stata rimandata. Non c’è nulla da fare. Non resta che andare a puntare qualche gettone sulla roulette, godersi il caldo e prepararsi a ridere di più domani sera.”
Tagliabue aspettò poi che il gruppo dei delusi salisse lo scalone e sparisse nelle sale da gioco. Finse di entrare nel bar e si precipitò invece nel teatro.
Proprio in quel momento Michele Galdieri aveva afferrato il soprabito e, dopo aver gridato con la poca voce rimastagli, “Qui mi si proibisce di fumare“, abbandonava la sala.
Erano le 22:17. Dietro Galdieri si lanciarono l’amministratore della Compagnia, l’impresario, la coreografa, il direttore d’orchestra.
La defezione dell’autore e regista dello spettacolo significava altro ritardo, altre complicazioni.
Galdieri rientrò in sala un minuto dopo, non ancora calmato.
Quelli che gli erano vicino poterono sapere che il Maestro si teneva su soltanto con le sigarette e che da tre giorni non dormiva, non beveva, non mangiava.
Raramente la rivista italiana ha avuto una preparazione così affrettata.
Il debutto era stato fissato, sempre a Sanremo, il 5 dicembre e la direzione aveva stabilito che il teatro rimanesse a disposizione di Anna Magnani fin dal 25 novembre.
Dieci giorni sarebbero stati sufficienti per montare le scene, provare le luci e abituare gli attori, che a Roma avevano sempre “studiato” in un salone, alle dimensioni del palcoscenico.
Il 5 dicembre, però, invece della Magnani arrivò a Sanremo un telegramma che chiedeva di rimandare la prima rappresentazione al 17 dicembre.
La direzione del Casinò aderì alla richiesta e, al posto di Chi è di scena, presentò al pubblico gli spettacoli di Vittorio Gassmann.
La “troupe” della Magnani arrivò a Sanremo martedì 15 dicembre, si impossessò del teatro, chiese falegnami, elettricisti, orchestrali, sarte, macchinisti e cominciò le prove.
Si scoprì subito che provare uno spettacolo in un salone e provarlo su di un palcoscenico era una cosa ben diversa.
Non funzionava nulla. Le luci non erano mai quelle esatte, volute da Galdieri; le ballerine si trovavano per la prima volta a dover eseguire con le scene, i movimenti studiati senza scene; gli attori dovevano imparare da quale parte entrare in palcoscenico, da quale uscire e dove rimanere per recitare le loro battute.
Disorientamento catastrofico.
La “prima”, già annunciata per venerdì sera, dovette essere rimandata dopo una riunione tempestosa fatta all’alba. Fu proibito alla stampa e ai fotografi l’ingresso al teatro.
L’amministratore della Compagnia sosteneva questa tesi: “Non vorrei che il nervosismo ci portasse a parole grosse. In questo caso sarebbe spiacevole che qualcuno le udisse“.
Anna Magnani abbandonò un momento la sala per respingere l’assalto dei fotografi e poiché quelli sostenevano la loro necessità di lavorare in anticipo, sbottò: “Ma proprio sempre er comodo vostro, se deve fa’?“.
Ma si riprese subito e, con squisita gentilezza, aggiunse: “Siamo stanchi. Oggi una ballerina s’è messa a piangere perché deve venire in scena troppo vestita. Un’altra ha avuto una crisi isterica perchè il vestito non le faceva la vita abbastanza sottile. Che ce volete fa’? A me fa tanta tenerezza vedere che qualcuno si preoccupa per la vita stretta o larga; io me ne frego del vitino“.
Era una Magnani pallida, sfatta; pronta a rispondere a qualsiasi domanda ma risoluta nel vietare l’ingresso a chiunque. “Perchè son tornata alla rivista? Per un capriccio, per una vecchia passione. Non mi presento al pubblico di persona da almeno dieci anni“.
E poiché qualcuno le ricorda che l’ultima sua rivista è stata Pio, pio, pio, nel 1947, scoppia in una risata: “Aò, ammazzalo che memoria bona. Ma fare la rivista” aggiunge subito “è orma un’emozione troppo forte per me. Ce vo’ tanta fatica che, mamma mia, nun ce riproverò mai più. Ma sapete che quando la facevo prima di diventare famosa col cinema ero una bella incosciente? Non mi ricordavo che fosse così difficile; altro che fare un film!“
Se dopo la riunione tempestosa, fatta all’alba di venerdì, non si fosse deciso di rimandare di un giorno la “prima”, il pubblico di Sanremo avrebbe visto uno strano spettacolo.
A quel momento solo il primo tempo era stato provato tutto di seguito e non erano mancate le difficoltà.
I costumi, per esempio: disegnati da Leonor Fini e visti sulla carta, apparivano splendidi; realizzati e indossati dalle ballerine perdevano qualsiasi suggestione. Furono convocate le sarte per aggiustare e rimandare alla meglio quelli meno riusciti.
Il secondo tempo fu provato venerdì sera: attori, ballerine, tecnici, macchinisti, orchestrali entrarono in teatro alle 21.
Fino a mezzanotte fu provato un balletto, quello del Marchese di Sade, con i ballerini che fustigano le ballerine e con queste che, presi gli staffili, si vendicano della crudeltà degli uomini.
La giovane coreografa inglese June Graham, che può essere considerata una epigone di Dino Solari, interruppe ogni fallo a suon di fischietto: meglio di un arbitro.
Da mezzanotte alle quattro fu la volta degli attori; fu il martirio di Luigi Cimara, invecchiato di dieci anni in una notte, senza più voce, distrutto.
Dalle quattro a mezzogiorno fu riprovato tutto il secondo tempo.
Anna Magnani era seduta in una poltrona di prima fila, con le gambe allungate sulla passerella; indossava un cappotto di cammello e tentava di frenare la sua classica spettinatura con un fazzoletto di seta.
Sulla poltrona di sinistra aveva buttato la pelliccia di visone; su quella di destra teneva una bottiglia di champagne come ricostituente. Una bacinella d’ottone piena d’acqua era colma di mozziconi spappolati.
Quando salì in palcoscenico per modificare l’intonazione di una attrice, i fotografi tentarono di ritrarla.
La “Signora” si rivoltò infuriata. Uno dei reporter disse, ma a bassa voce: “Fra dieci anni verrà a pregarci per avere una fotografia“.
Mancava poco a mezzogiorno quando la coreografa chiese alle ballerine di provare ancora una volta una scena particolarmente difficile.
Ballavano da quindi ore eppure, al primo accordo dell’orchestra, quelle ragazze si presentarono alla platea deserta, fresche e sorridenti.
Galdieri non seppe resistere. Con le lacrime agli occhi si precipitò a baciare la mano a tutte le ballerine ringraziandole per averlo aiutato fino a quel punto.
Mancavano nove ore all’apertura del sipario e, ai botteghini del teatro, si stavano vendendo le ultime poltrone.
Quando Galdieri uscì sulla gradinata, accecato dal sole, con la barba lunga di due giorni, gli occhi pesti, il soprabito sulle spalle, un autista di piazza lo guardò per un momento e poi sussurò a un collega: “Hai visto quello? Esce ora dal Casinò. Ha l’aria d’aver perduto anche la camicia“.
La “camicia” di Michele Galdieri, invece, si era salvata. Sia pure con qualche sdrucitura e qualche macchia dovute, forse, alla frettolosa preparazione.
Chi è di scena è una rivista ambiziosa; vuol essere intelligente, e non è un male; ma non ci riesce sempre, ed è un peccato.
Galdieri, dal 1925 a oggi, ha scritto settanta copioni: e nessun autore riesce a creare settanta opere interessanti.
Chi è di scena è uno spettacolo nato con l’intenzione di essere opera d’arte ma si è fermato a mezza strada. Innanzi tutto ha dato l’impressione, al pubblico che lo applaudiva educatamente, di voler mettere troppa carne al fuoco.
Galdieri ama la polemica e, con le sue riviste, vuol bollare certi aspetti del costume contemporaneo. L’unica grande rappresentazione – dice chiaramente l’autore all’inizio – è quella della vita; anche le maschere del teatro devono abbandonare la fissità distaccata dei copioni, scendere dal loro piedistallo di parole e affrontare la realtà.
Così Brighella diventa un vago filo conduttore; il personaggio fisso che lega uno sketch a un balletto; un monologo a una canzone.
Ma quali sono i temi scelti per sostenere che la “vita è una rappresentazione”?
Sono: gli errori giudiziari, il cinema neorealista, le bravate manesche di Don Camillo, l’esibizionismo inopportuno del Marchese de Cuevas, la statua a Pinocchio (e non a D’Annunzio o a Marconi), le signorine perbene destinate allo zitellaggio e i “signorini” di buona famiglia ben disposti alla rapina, la “distensione” tra Oriente e Occidente.
Sono argomenti delicati, seri. Ma non sono svolti nè in chiave dichiaratamente rivistaiola vecchia maniera nè sono affrontati con la spregiudicatezza ferocemente satirica del “Teatro dei Gobbi”.
Il pubblico assiste a uno spettacolo che non è né carne né pesce; a uno spettacolo che, diamo pure la colpa ai tagli della censura, non ha che rare occasioni di divertimento.
Il pubblico, insomma, non ride.
Ascolta, considera, riflette ma non ride.
Ha riso soltanto quando, mentre i ritardatari cercavano il loro posto, un’attrice travestita da spettatrice, ha gridato che le avevano rubato la collana.
I valletti in giacca rossa e “polpe” bianche, ignari del trucco si son precipitati verso il palcoscenico con la speranza di acciuffare il ladro.
Ma non ride ai monologhi di Luigi Cimara, attore raffinato che pare abbia accettato la rivista con la rassegnazione del Calvero di Chaplin; non ride alle grasse battute della Magnani (la quale ha sublimato il pernacchio ponendolo come gemma nel castone di uno sketch).
Semmai il divertimento, quel poco che c’è, nasce dagli abbandoni alla fantasia; dal balletto degli Arlecchini, dalla rievocazione del “Moulin Rouge”, dal ricordo del “Sogno di una notte di mezza estate”, dagli stupendi costumi di “Alice nel paese delle meraviglie”.
Ma per pochi, squisiti costumi, quanti decisamente brutti. L’abito indossato dalla Magnani al finale, ha raccolto le più sincere risate. Il pubblico raccolto nel piccolo teatro di Sanremo era elegantissimo.
L’impresario di Chi è di scena sostiene che sono stati spesi 50 milioni per l’allestimento.
Eppure la scenografia è quasi sempre risolta con fondali neutri e i costumi sono tra i più modesti della stagione teatrale.
Molti hanno tentato di conoscere la paga quotidiana di Anna Magnani. “La Signora non figura sul foglio paga“, ha dichiarato l’amministratore “percepisce solo una percentuale sugli incassi lordi“.
E alla domanda se questa percentuale poteva calcolarsi sul 10 per cento, ha risposto: “Più o meno; 200 mila lire al giorno non sarebbero poi troppe per un’attrice così grande“.
Per Luigi Cimara la risposta è stata più evasiva: “E’ contento di quello che prende“. Per gli altri “Nessuno si lamenta“.
L’impresario, meno prudente, ha invece affermato che quella di Anna Magnani è la più costosa compagnia che lavori oggi in Italia; per vivere ha bisogno di incassare ogni giorno oltre 2 milioni di lire.
Il pubblico di San Remo ha applaudito molto e, alla fine del primo tempo ha voluto che l’autore si presentasse alla ribalta.
Erano applausi rivolti anche alla volontà e alla fatica sopportata dagli attori per andare in scena puntuali.
Al finalissimo il pubblico si è addirittura ammassato intorno alla passerella. Si era accorto che alcuni operatori stavano riprendendo scene da inserire nelle attualità cinematografiche.
A.P.