E’ sempre uno shock incontrarla.
La rivedi con le redini in mano a cassetta della carrozzella sgangherata su cui durante l’occupazione tedesca correva su e giù dal Teatro Valle alla Sala Umberto, la gran chioma al vento, il profilo puntato contro il coprifuoco, la fame, le pattuglie tedesche.
La risenti cantare con quella sua voce affumicata: «Cosa m’importa a me se non so bella / tengo il moretto mio che fa il pittore», e lanciare a fianco di Totò una di quelle sue battute che infiammavano il loggione.
Ritrovi in quella sua casa tanto difesa, dove persino i gatti si muovono con prudenza in un silenzio d’acquario, la Roma di vent’anni fa: con le pecore che pascolano ai Parioli, le prime donne a Montecitorio, Rossellini e Amidei da Nino a via Rasella che litigano sulla sceneggiatura, il neorealismo, i comizi, le agitazioni nelle borgate.
Nannarella se ne sta rannicchiata sul divano di tela ruggine con la cagnetta Lillina semicieca in grambo, le gambe scarne infilate nei calzoni di panno nero, il seno, giustamente celebre, serrato in un giubbetto di lana che l’ingoffa, a scacchi neri e marroni.
Sotto la nera griglia dei capelli, arruffati nella foggia che tante tentarono di imitarle, nel dopoguerra, a costo di torture medievali, dentro le orbite fonde gli occhi scrutano il mondo senza indulgenza.
Non c’è civetteria in quel suo eterno giocherellare con una ciocca o l’altra, nel viso pallido e senza trucco esposto come una sfida.
Com’è bella questa donna brutta, divorata, spettinata che all’improvviso ti si erge davanti col suo metro e sessanta scarso e riesce ad apparire persino alta mentre respira al di là dei vetri, oltre la terrazza, la vita della sua città.
La sua risata aspra mette in mostra i denti robusti e canditi, di ragazza.
Ride con gli occhi, con le gambe, coi gomiti, col naso, quel naso asimmetrico che si trasforma col mutare degil stati d’animo, un naso così difficile da fotografare, così impegnativo da portare che ora fa pensare a una mistica rapita e un secondo dopo a una ménade scatenata.
Riottosa, cupa, popolana, volgare, indomabile, aspra, rabbiosa, triste… gli aggettivi che le hanno dedicato si ritrovano tutti.
Quel che sorprende è l’aria d’uccello ferito, un che di fragile che si rivela da vicino nel gesto di stringersi con le mani le spalle come per scacciare il freddo troppo a lungo accumulato, in quei piedi teneri da bimba calzati con mocassini numero 34.
Quando Marlon Brando se la vide per la prima volta davanti con un piccolo tailleur nero e i tacchi bassi non si trattenne dal confessarle: «M’aspettavo una Carmen lussuriosa avvolta in una vestaglia frusciante…»
Il conte di Fombronne
Si capisce che non è disposta a fare la minima fatica per piacere, per sedurre, per farsi accettare.
Se entra in un salotto ha sempre l’aria di esserci stata trascinata contro la sua volontà.
Non riconosce le persone, confonde i nomi, finisce col rifugiarsi in un angolo, avvolta in un’aria d’umor nero, fumando una sigaretta dopo l’altra. Il fotografo che ha ammesso dopo un lungo assedio nella sua casa la prega di mettersi addosso una nota femminile, un tocco di bianco.
Lei alza le spalle, senza convinzione, va in guardaroba, torna con uno scialle scuro, l’osserva per un momento, lo butta da parte, riesce, rientra con una vestaglia che pare un grembiule d’educanda: «Sembro un prete copto», dice guardandosi con crudeltà.
In trentacinque anni non ha imparato a farsi fotografare senza soffrirne. La disinvoltura con cui si muove sotto la macchina da presa diventa imbarazzo; sotto l’obiettivo si comporta come i suoi gatti, stringe gli occhi, soffia, rizza il pelo e alla fine scappa.
Sopra il divano, in mezzo ad altri ritratti di Tallone, di Carlo Levi, di Leonor Fini, di Guttuso, di Anna Salvatore, ce n’è uno che la fissa sedicenne («Dio mi com’ero secca. Tutta occhi e naso») lo zigomo prepotente, l’occhio implacabile, un gran turbante. E’ uno dei momenti della sua lunga carriera che più le piace ricordare.
Uscita dall’Accademia di Santa Cecilia fu scritturata da Dario Niccodemi e spedita in argentina con la compagnia di Vera Vergani. Si sentiva un’attrice consumata.
Le assegnarono una battuta: «Il conte Fombronne sollecita la visita del mio nobil padrone». La vestirono da paggio, una gamba grigia una verde, giustacuore lilla, gran parrucca bionda.
La sera della prima si trovò in una mano uno spadone, nell’altra un mantello che pesava come marmo. Li lasciò cadere, sbagliò la battuta, la ributtarono in scena con una bottiglia di vino e due bicchieri e lasciò cadere anche quelli.
Vennero i primi applausi nella “Signora Rosa” di Sabatino Lopez, le prime scritture nel cinema, la scoperta sui palcoscenici di rivista di una felice complicità con il pubblico.
«Il coraggio che si ha a vent’anni chi ce lo ridà» sospira Anna Magnani. Ma quella prima sensazione di panico non riuscì a dimenticarla. La paura fu ricacciata dentro, ma non annientata.
E’ tornata a premere ogni volta che, dopo un intervallo più o meno lungo, nelle fasi alterne di una carriera non sempre facile, riprendeva a lavorare.
La paura l’ha trattenuta per due anni dall’accettare una prima offerta di Franco Zeffirelli per il teatro, l’ha convinta a rifiutare a Broadway “Madre Coraggio”. Oggi l’ha tenuta in dubbio per settimane di fronte alle insistenze di Zeffirelli che l’ha voluta protagonista della “Lupa” di Verga.
L’uomo di casa
Le prove cominceranno soltanto il primo maggio per andare in scena il 26 alla Pergola di Firenze prima, poi a Zurigo, a Parigi, a Vienna.
Ma già Anna Magnani descrive il suo nuovo personaggio come se ci si muovesse dentro ogni sera. Lo vuole scarnito, meno sensuale.
Ne parla come se ci vivesse insieme, con confidenza, come dell’amica che ha perduto di recente e di cui non sa ancora accettare la scomparsa. Vede nel personaggio verghiano una donna predestinata ad una morte atroce piuttosto che una creatura avida di vivere; e già sente il bisogno di difenderla, di riscattarla, proprio come le avviene con le persone che le sono care. Poche, tanto che riesce ad elencarle con le dita della mano.
La madre, la sorella, il marito Goffredo Alessandrini, da cui è divisa da oltre vent’anni ma che è diventato un compagno sicuro che consiglia e si fa consigliare; e i rari amici che hanno saputo accettare la sua sincerità a volte oltraggiosa: Mario Monicelli, Colette Rosselli, Leonor Fini che le ha regalato il gatto Pussi misogino e misantropo.
Nella sua bella casa a Palazzo Altieri, nel cuore della Roma barocca rossa grigia e gialla su cui spazia la terrazza non grande ma vestita come un rustico di campagna, con i suoi libri, i gatti di porcellana, i gatti vivi, i merli parlanti, il figlio nell’appartamento a fianco, in questa sua isola calda e vissuta che concede solo agli intimi di conoscere nelle notti d’insonnia in cui le pare di udire nelle vie deserte un ruggito di leoni, la sua inquietudine le pone dubbi e domande.
Al pensiero della morte che la ossessiona e contro cui si rivolta come a un affronto della vita, a un misticismo che la turba e la fa esclamare «Iddio è coscienza!», s’è aggiunta ora l’angoscia di sbagliare.
«Ripensando a tutti questi anni di lavoro nel cinema mi pare di non essere stata altro che un impiegato diligente. Ho eseguito, inventato, provato e riprovato ma sempre sapendo che avevo la possibilità di cavarmela. Una scena si rifà: una, dieci, cinquanta volte se occorre. Se sbagli una battuta, puoi tornare a ripeterla. Se hai la febbre non sei costretta a girare. Ma in teatro sei esposta, sempre, senza dilazioni, senza scappatoie. Sai che il pubblico è là sotto di te pronto a dilaniarti. In teatro o la va o la spacca».
Eppure dietro quei tremori, quell’interrogarsi continuo «ce la farò?», nell’abbandono con cui confessa di avere, paura, c’è un coraggio virile: nella sua decisione di tornare sulle scene non c’è sfida, ma una volontà cosciente di mettersi alla prova, di vedere quanto vale.
Virile: un aggettivo che torna di frequente in quella sua conversazione difficile, in cui a rapidi abbandoni s’alterano brusche impennate e silenzi raggelanti: la conversazione di una donna abituata a parlare soprattutto a se stessa, che dalla solitudine s’è fatta una difesa contro un mondo che le pare lebbroso, insidioso, spietato.
Virile è New York e la lingua inglese che ha imparato “miracolosamente” interpretando La Rosa Tatuata; virile è il “Tropico del Cancro” di Miller e le “Confessioni di Sant’Agostino”, le ultime letture che l’hanno appassionata; virili sono i vestiti che predilige, le belle mani sempre in movimento, l’arredamento che ha messo insieme senza l’aiuto di architetti, la sua mancanza di indulgenza verso se stessa, il bisogno di verità; e virili le appaiono persino gli eucalipti che ha piantato intorno alla villa al Circeo e che ora la chiudono in un muro dorato, impenetrabile.
Virile, infine, è il suo atteggiamento verso l’amore, che non è per lei la cosa più importante della vita, ma «un momento effimero di una stagione felice che si brucia in fretta e non si deve rimpiangere»; com’è virile il suo senso dell’amicizia. La dà con parsimonia, senza volubilità e ne aspetta ben poco in cambio.
«Io», dice, «sono l’uomo di casa»: e la immagini china sul gran tavolo ingombro di carte intenta a preparare le sue difese contro il fisco (che fa dannare), i progetti d’investimenti, i promemoria per gli avvocati. Gli uomini che sono entrati nella sua vita l’hanno investita come cicloni e ne sono usciti senza lasciarle rimpianti. Spesso più deboli di lei, sempre meno intransigenti, sembra scrollarseli di dosso con una alzata di spalla: «Qualche lacrima, e li hai già dimenticati».
Non è stato sempre così. Quando nella primavera del 1948 Roberto Rossellini la lasciò per Ingrid Bergman, Anna reagì come una belva ferita.
Era stato finalmente un rapporto completo, cementato dalle stesse ambizioni, ravvivato da un apporto reciproco di idee e di sensibilità. Rossellini sperava di ricrearlo; Anna era certa che non lo avrebbe più ritrovato. Era stato per entrambi il momenti di grazia in cui avvertivano di essersi pienamente realizzati.
Rincontrandosi due anni fa nella saletta di un cineclub per rivedere i film girati insieme l’attrice e il regista rimasero seduti fianco a fianco, un po’ rigidi, senza parlare. Salutandosi si augurarono buona fortuna e si separarono in fretta, quasi volessero evitare di ricordare.
Col tempo Anna Magnani ha imparato che un vero uomo non saprebbe accettarlo. L’indipendenza, che è la sua molla vitale, le è diventata necessaria come il piacere amaro di ripetersi, guardandosi allo specchio senza misericordia: «Tu sei sola Anna, stai invecchiando, hai un carattere bastardo e non troverai mai quello che hai sempre cercato: la serenità».
Forse è nata troppo tardi. Cinquant’anni fa il suo temperamento e le sue qualità d’attrice la avrebbero imposta come una grande diva; Gabriele D’Annunzio e Bernard Shaw se la sarebbero disputata e un pubblico meno distratto le avrebbe tributato una adorazione incontrastata. Invece ha sfondato nel cinema quando già Gina e Sophia erano alle porte, e certi attributi fisici s’imponevano più del talento.
L’enorme popolarità coquistata con Roma città aperta non è mai stata alimentata da nessuno di quegli accorgimento che le attrici venute dopo di lei hanno subito scoperto e sfruttato.
Per orgoglio, o per insofferenza, Anna Magnani non ha mai accettato un press-agent, non ha voluto imparare a sorridere sotto i flashes.
Eucalipti del Circeo
Il suo stesso cliché di popolana scarmigliata, di cui oggi è stanca, l’ha condizionata a certe parti.
Il suo viso troppo intenso, le gambe esili sempre nascoste sotto i calzoni o le gonne lunghe non richiamano sulle copertine dei giornali. Il suo carattere incapace di compromessi, l’avversione quasi ingenua per tutto ciò che chiama ipocrisia, i malumori covati, gli scatti di violenza, l’hanno portata ad avere anche nel lavoro rapporti difficili.
Oggi dice che l’attore che più stima è Marlon Brando, ma nei giorni in cui giravano insieme gli scontri e le scenate minacciavano pericolosamente la lavorazione el film. Entrambi volevano il proprio nome più grande sui titoli di testa, un maggior numero di primi piani, il copione modificato per dare più respiro alla parte.
Per verità Anna ebbe sempre la meglio su Brando, che finì col riconoscerle «un caratteraccio».
Ci sono tre registi che l’attrice ricorda con calore: Roberto Rossellini («a parte i nostri rapporti personali, eravamo fatti l’uno per l’altro»); Daniel Mann che la diresse nel suo primo film americano e che le rese piacevole quel lungo soggiorno ad Hollywood, lontana dal figlio, dai gatti, dalle cose care; ed infine Jean Renoir «un poeta, un genio, un vero signore. Si levava il cappello ogni volta che entravo in scena». Gli altri li liquida con una battuta: «Incontri sbagliati».
Di Luchino Visconti che inventò per lei in Bellissima uno dei suoi personaggi più indimenticabili non vuole parlare; e se le dicono che in quella parte era molto più brava, ad esempio, che nella Carrozza d’oro di Renoir, gli occhi le diventano di ghiaccio e la mano ha un gesto netto che non lascia replicare.
I momenti più belli della sua vita? Quando riesce a dormire otto ore filate e svegliandosi si sente «tutta nuova».
Il posto che più ama? La casa al Circeo alta sulla montagna fra gli alberi antichissimi che le danno «un senso di eternità».
La sua distensione? Lavorare. Ogni volta che è impegnata in una nuova parte si sente liberata: Anna Magnani è finalmente dimenticata, sopraffatta da una personalità più prepotente della sua.
Mentre torna a parlare della “Lupa” quel rancore che si porta dentro sembra allentarsi e nei suoi occhi appare la stessa espressione di dolente pietà con cui ha descritto all’inizio del nostro incontro la morte del merlo che ogni mattina a salutava con uno squillante «Ciao Anna».
Tre ore di colloqui con lei non mi hanno detto nulla che quel suo viso divorato dalla tristezza e quel suo corpo rannicchiato sul divano come un gatto infreddolito non avessero già rivelato.
M. Serini
(Fotografie di Franco Pinna – Archivio privato)