Non è detto poi che basti arrivare a Hollywood. Anna Magnani, per esempio, rischiavo di non vederla.
M’informo dell’albergo dove abita. Al Beverly Hills. Telefono: non c’è. Non c’era mai. Le faccio sapere che sono qui, da un amico. Mi manda a dire: come mai non si fa vivo? Allora le scrivo. E una mattina, all’alba, una voce, quella voce, al telefono: «Sono Anna Magnani». «Oh!», «Beh?».
Il giorno stesso, arrivano la sua segretaria, e la sua macchina con autista. Andiamo alla Paramount e mi portano nel suo camerino.
E’ una piccola villetta, un bungalow, ammobiliata di tutto punto, con un certo gusto, appena scaduto di qualche anno. Un camerino simile potrebbe benissimo essere stato di Bette Davis.
Gli occhi mi cadono su un pezzo di carta. Una poesia, scritta a macchina, in inglese. Che cos’è? La traduzione inglese di “Scapricciatiello”, spiega la segretaria. A che scopo? Per farla leggere a Cukor, il regista.
In quel momento telefonano dallo studio. Anna non può muoversi. Andiamo noi, e appena entrati in teatro la voce di Anna c’investe che canta “Scapricciatiello” in napoletano. Anna, in calzoni e maglia nera, è seduta a cavalcioni su una sedia e ci fa segno di avvicinarci. Non cantava lei. E’ la sua voce, dall’altoparlante, in play-back.
Provano una sequenza difficile di “A woman obsessed” (Wild is the wind, ndr) .
La scena figura una pergola all’italiana davanti a una fattoria del Nevada. Anna Magnani qui si chiama Gioia, è una contadina italiana arrivata da poco in America per sposare un paesano, Gino (Anthony Quinn), rimasto vedovo di una sua sorella.
Se ho capito bene si tratta di una festa, dopo le nozze, in cui Gioia canta “Scapricciatiello“, balla con suo marito, è allegra, contenta, si lascia andare, sino a che scopre con orrore che il marito è sempre innamorato della sua sorella morta, Rossana, e non può togliersela dal cuore, e non riesce ad amare lei, Gioia.
Ma ora, mentre la voce di Anna esce dall’altoparlante, l’attrice di ripassa sottovoce la canzone. Muove appena le labbra.
La pergola è piena di comparse disposte intorno a due tavolate. C’è persino un prete vero. Molti italo-americani chiamati a raccolta per l’occasione.
C’è un’orchestrina di chitarre, mandolino, fisarmonica. Riconosco alcuni attori: Lili Valenty, Joseph Calleja, Anthony Franciosa, e Quinn, che conosco già, da Roma. Sono tutti molto silenziosi.
Cukor, il regista, è un uomo gentile, fine, attento, precocemente invecchiato. Me lo ricordo grassoccio e aggressivo. Ora è magro e umile.
L’operatore cerca di capire anche lui dove dovrà disporre la macchina. La scena non è ancora a fuoco, decisa.
Mentre Anna canta, Gino è ubriaco, beve sempre più, la accompagna con una chitarra presa a uno dell’orchestrina, poi si alza, balla abbracciato alla chitarra, la moglie si alza a sua volta, lo provoca, lo cimenta, come dicono i contadini dell’Abruzzo, lo urta nel fianco con il fianco, e Gino ci sta, sinchè il ricordo della prima moglie si fa troppo intenso, e si ribella.
Questa la scena che ho visto provare tutto quel pomeriggio.
Anna è nuvolosa, concentrata. Studia il posto dove deve sedere e come dovrà sedere, all’inizio della sequenza.
Anche Quinn ha le sue idee in proposito. Non sa suonare la chitarra, per esempio, e non vuole suonarla nella finzione, neanche per scherzo, ma percuoterne la cassa rovesciata con le dita, alla messicana.
Cukor ha l’aria di ascoltare tutti e decide di provare infatti anche in questo modo.
La Magnani cambia di posto, Quinn non suona più. Apparentemente si va avanti a tentoni, Cukor potrebbe sembrare un regista debole o arrendevole, e invece, no, la scena si organizza a poco a poco, e dopo ogni prova gli attori rendono sempre di più.
Sono d’accordo in linea di massima, attori, regia, produzione, rimane il direttore della fotografia che ha sinora seguito la faccenda con il suo occhialino, e ora ha preso l’operatore di macchina per la cintura dei calzoni e lo spinge avanti e indietro, simulando così i movimenti del carrello.
La scena, leggermente ridicola, è seguita invece da tutti in un silenzio assoluto. Infine Anna è libera per qualche minuto, mi viene incontro, mi presenta in giro, e mi fissa un appuntamento per la fine settimana, la mattina del sabato, dopo che si sarà sfogata a dormire.
Fra tre giorni, dunque? Invece, la incontro prima, venerdì sera, dopo il lavoro, nella villetta di Valentina Cortese allo Chateau Marmont. Cosa è successo? Anna non può dormire, ecco tutto.
Fa un caldo infernale, e i lenzuoli, la notte, scottano come la graticola di San Lorenzo.
Ha chiesto un bungalow nel parco di Beverly Hills. Non ce ne sono più di liberi. Una stanza con l’aria condizionata. Si è già superato il numero degli apparecchi concessi dall’albergo.
Anna è pallida, i capelli come serpentelli, l’aria leggermente minatoria.
A parte questo, l’America le ha fatto bene, è dimagrita, si è affinata, l’occhio è chiaro. Ma cerca casa.
Andiamo tutti in banda (a Valentina Cortese e al marito, Richard Basehart, si sono aggiunti Cesare Danova e Pamela Mathewsche aiuta Anna a mandare a memoria i dialoghi inglesi di “Ossessione di donna”) a visitare un appartamento sull’attico dello Chateau Marmont.
Nel pomeriggio le hanno offerto una villetta che appartiene ad Anna Maria Pierangeli. Ma questa casa le piace, con la grande terrazza e le stanze numerose e comode e la vista di Hollywood, sino in fondo al mare, e al porto di San Pedro, e con le torri dei pozzi di petrolio sparpagliate da per tutto sulla pianura, e le luci di Santa Monica, Venice, Plaza del Rey, che corrono lungo il Pacifico.
La casa è su una collina, guarda sul Sunset Boulevard. L’unico inconveniente è un’enorme bambola girevole, in costume da ballo e cappello texano, tempestata di specchietti, all’altezza della terrazza, che fa la pubblicità alle case da giuoco di Las Vegas.
La gigantessa è quasi a portata di mano e, muovendo intorno a sé i suoi lustrini come un faro, impedisce di godere del paesaggio. Ma l’affare è fatto, e Anna prende la casa.
Ora che si è decisa, e pensa che dormirà in avvenire, e avrà una casa tutta per sé, dove potrà perfino cucinare se le saltasse in mente, Anna Magnani cambia subito d’umore. Diventa allegra, rumorosa come una bambina, s’unisce a noi e traversiamo Hollywood per finire in casa dei Danova dove una cena fredda è stata preparata, nel frattempo, da una zia di Cesare Danova arrivata da Roma.
Anna siede al piano, e benchè abbia la voce roca per aver cantato tre giorni di seguito “Scapricciatiello”, accenna alle sue vecchie canzoni romane.
Si alterna a lei una domestica negra, che canta con un filo di voce, come un angelo. Anna l’abbraccia.
Poi all’improvviso, fa: «Carson City! Ci sei stato mai tu, a Carson City, nel Nevada?».
Le rispondo di no.
«Beh, è là che dovevi venire. Dove abbiamo girato gli esterni. Stavamo in una fattoria, in mezzo alle montagne e alle pecore. Ma mica sono selvaggi. Il pastore che ci ha ospitato, la domenica, per esempio, dipinge. Come si chiamava quel pastore? Dio mio, come si chiamava? Pamela, come si chiamava? Telefona a Cukor, fattelo dire. Adesso, sì, adesso. Che c’è di male? E’ amico mio.
Il sabato sera poi, questi pastori, sono quasi tutti di origine basca, vengono dai Pirenei e sono pieni di soldi, il sabato vanno a Reno a giocare al casinò. Bob Pruett, ecco come si chiamava il pastore. Siamo stati là tre settimane.
C’era un cavallo! Un cavallo che fa l’attore, nel film, un amore di cavallo. Dice di sì, dice di no, va avanti, indietro, s’impenna davanti all’obbiettivo. Si chiama Beauty, ed è davvero una bellezza. Figurati che, per non farlo stancare, aveva cinque controfigure, tutte eguali a lui, cinque cavalli neri. Stavamo benissimo.
Abitavamo, tutta la troupe, in un Motel. No, nella fattoria si girava. Ognuno aveva un padiglione tutto per sè».
«Da principio ero molto avvilita, quando sono arrivata a Hollywood. Per due mesi sono stata molto esaurita. Ho cominciato il film in uno stato di grande esaurimento. Ma vedi, dopo “Suor Letizia” avevo giurato a me stessa di non fare più se non quello che mi sento di fare. Così quando sono arrivata in America, e Hall Wallis, il produttore, che è amico mio, mi consegna il primo scritto, io ho detto di no. Non ci sono state liti.
Lo sceneggiatore, Arnold Shulman, è stato il primo a darmi ragione. Non mi conosceva, non mi aveva mai visto di persona. Gli avevano promesso di mandarlo a Roma a parlare con me, e invece niente. Così il copione non andava.
Allora, l’abbiamo riscritto, tre o quattro volte, sino a che è venuto fuori un personaggio che ha dentro tutto quello che io ho. Una donna innamorata, amante. A questo punto bisogna dire che Cukor ha avuto molto garbo. Mi lascia libera, mai che faccia sentire le redini. Mi dice: “Dimmi che te ne pare. Tu, a questo punto, come reagiresti, cosa senti? Che ti vien fatto di rispondere?”. Caro mio, capirai che una persona che ti tratta così è un angelo. Mi è venuta subito la voglia di lavorare. Io volevo anzi, già che eravamo lì, fra quelle montagne, girare tutto lì.
Io lavoro meglio all’aria aperta, sono più felice. Mi pare di respirare la parte. Ma l’operatore, Charlie Lang, non se l’è sentita di rischiare più di tanto, più di quello che era previsto, e siamo venuti qui a fare gli interni. Hai visto oggi, no?».
(dalla Biblioteca Renzo Renzi, Cineteca di Bologna)
Foto copertina © Bill Avery