In questo indimenticabile diario, diviso in due puntate, la nostra grande Anna Magnani fa il racconto dei suoi quaranta giorni trascorsi a New York
Ero partita male dall’Italia, ero partita di malumore più delle altre volte. Io non amo viaggiare, non amo i bagagli, non amo le preoccupazioni che un viaggio ti dà. Nello stesso tempo vorrei vedere tutto il mondo. Non ho ancora trovato la maniera di conciliare queste due cose.
Non amo lasciare casa mia, non amo mai lasciare Roma, perciò il mio umore era piuttosto greve, con l’aggiunta di un certo giustificato timore verso un paese la cui sensibilità, e maniera di pensare e di vivere erano a me completamente sconosciute.
Dopo qualche giorno di navigazione in cui sembravo a me stessa e agli altri un animale preso dal centro della jungla e messo in un giardino di acclimatazione, presi il coraggio a quattro mani, e mi dissi: «Anna, così diventi matta». Mi scrollai di dosso tutto, mi vestii un po’ meglio del solito per farmi coraggio; mi feci bella quel tanto che mi è possibile esserlo; e uscii dalla mia cabina.
Eravamo a Lisbona. «Andiamo a trovare il Re», dissi a Renzo Avanzo, mio compagno di viaggio, e, insieme a una nostra comune amica, affittammo una macchina e ci avviammo verso Cascais. Dopo quaranta minuti ci fermammo davanti a una piccola villa vecchio stile. L’incontro fu patetico.
Io non ho idee politiche di nessun genere, ma non posso dimenticare la cordialità affettuosa che Umberto mi aveva dimostrato quando era ancora Luogotenente, invitando me e Fabrizi al Quirinale per visionare Roma, città aperta. La proiezione risultò penosa. Era una macchina da campo e il film sembrò una comica alla Ridolini.
Mentre ripensavo a tutto questo, si aprì la porta e il nostro Re era lì, cordiale e sorridente. Mi sentii di colpo emozionata e imbarazzatissima. «Che faccio mo’? Je devo fa’ l’inchino? Mamma mia!». Mi aiutò lui: non mi dette il tempo di parlare, mi abbracciò baciandomi sulle guance, e mi disse «cara», s’interessò di tutto, mi chiese del mio lavoro. «Maestà, sono stanca di fare il cinematografo, voglio ritirarmi», dissi. «Per carità, cosa dice? Se sapessero in Italia quanto bene lei fa al nostro paese! Io solo posso dirglielo che vivo all’estero».
Ripartimmo tutti con un po’ di malinconia.
Prima di salire a bordo, io e Renzo ci fermammo davanti a un negozio. In vetrina, solo e immalinconito, era esposto un magnifico pappagallo, aveva tutti i colori dei grigio, del rosa, del madreperla, era una cosa meravigliosa. «Com’è bello! Che famo, Renzo, lo pigliamo?». Tutti e due avevamo gli occhi lucidi dalla voglia, non ci staccavamo più dalla vetrina, ma ahimè dovemmo rinunciarci. «Te pare, arrivo in America pure col pappagallo!». In compenso tornammo a bordo con due chili di fave romanesche che la sera, tra smokings e toilettes, troneggiavano sul mio tavolo.
Il viaggio seguitò: il mare era buono, il commissario di bordo era un mio vecchio caro amico, Pescarolo, con il quale avevo fatto il mio primo viaggio nel mio primo anno d’arte nella compagnia di Vera Vergani, oggi sua moglie. «Questo mi porterà fortuna», mi disse.
John Ford, anche lui sulla Andrea Doria, fu con me molto simpatico e amico, cercò di farmi capire cosa sarebbe successo di me in America. Un altro signore, dirigente di una delle più importanti riviste americane, mi dette ancora altri consigli con tale affettuosa cordialità che io quasi li imparai a memoria, e alla fine aggiunse: «Sono sicuro che vi ameranno molto, gli americani. Saranno felicissimi di avere davanti ai loro occhi, un essere vivo come voi, e poi sono tanti anni che vi aspettano!». «A me? Aspettano me?» pensavo io. «Questo è matto».
In fondo in America sono andati soltanto due films miei: Roma città aperta e Miracolo: non mi hanno avuto molto sotto gli occhi. «Vi mangeranno però, non potrete fare a meno di fare tutto quello che vorranno loro. Buona fortuna, Anna!».
I miei terrori ricominciarono. «Anna sii serena e brava», mi dissi.
Così l’11 aprile alle 6 di mattina fui buttata giù dal letto da Sandro Pallavicini che mi aveva raggiunta a New York in aereo. «Anna, dammi la mano ed esci con me, non ti spaventare, sono in tanti. Segui me».
Io sapevo che saremmo sbarcati alle 10 e mezzo. Una motobarca con a bordo giornalisti, fotografi, Sandro Pallavicini, i rappresentanti della I.F.E. da cui ero tutelata, avevano raggiunto il piroscafo due ore prima dello sbarco. E così cominciò.
«Anna, sorridere!» e giù un lampo, tre, quattro, cinque, non ricordo più. «Anna, saluta New York!» e ancora un lampo. «Anna… Anna… Anna…». Erano ordini, cordiali, ma ordini. «Anna, ti chiedono di mostrare le gambe», mi tradusse Natalia Danese, una mia vecchia cara amica che vive a New York, e che aveva accettato il difficile compito di starmi vicina durante la mia permanenza laggiù. «Che mi chiedono?» feci io allibita. «Le gambe», Natalia non aveva il coraggio di ripeterlo. «No» feci io. «Questi non me le hanno viste bene, pensai, se no non me lo avrebbero chiesto». Comunque la faccenda non mi piaceva e non lo feci.
In mezzo a questa baraonda di lampi e di domande, una giornalista mi rivolgeva sempre la stessa domanda che io naturalmente non capivo. «Miss Magnani, please. Cosa è venuta a fare in America?», «Da dove viene: dal teatro o dalla rivista?»; «Quanto si fermerà in America?»; «Cosa sente lei quando interpreta un suo personaggio?»; «E’ vero che è venuta per lavorare in America?». «No, rispondo io, resterò a New York solo un mese, sono venuta per assistere al gala del mio film Bellissima, diretto da Luchino Visconti». «Come!? Non andrà a d Hollywood per lavorare?» chiedevano sorpresi. «No» rispondevo sorpresa anche io.
«Natalia, per piacere, dimme che vo’ questa». Alludevo alla giornalista che era tornata alla carica. «Francamente nemmeno io so’ che vo’ questa», mi rispose Natalia che è romana come me. «Vo’ sape’ da te che rapporto c’è fra il sesso e il cinematografo. Che je rispondi?». Io restai senza fiato. Gli altri insistevano: «Come trova le donne americane? E gli uomini? Che effetto le fa New York?».
Alle 10 e mezzo saluti; le interviste erano finite. Cominciò l’operazione di sbarco e ci avviammo tutti all’Immigration Office. Ma la giornalista non si era data per vinta, era ancora lì. Cominciavo ad allarmarmi. Renzo Avanzo non mi lasciava di un passo. Natalia non sapeva più che fare con quella signora. Jonas Rosenfiel, il public relation man e vice presidente della I.F.E., al quale ero stata affidata per la tutela di tutto quello che mi riguardava come relazioni pubbliche e cioè contatti con la stampa, ricevimenti, ecc., un uomo dal polso forte e dagli occhi chiari e intelligenti, era anche lui impotente di fronte a tanta perseveranza.
In nostro aiuto si staccò da un tavolo un sorridente funzionario che, battendo amichevolmente una mano sulla spalla della giornalista con il più dolce dei sorrisi e nel tono più cordiale ma deciso del mondo, le disse: «E’ meglio che tu vada via prima che io ti butti fuori». E così sbarcammo.
All’uscita un gruppo di italo-americani era ad aspettarmi. Avevano scritto «Viva Anna Magnani» su uno striscione di tela che con due bastoni tenevano sollevato in alto.
Una piccolissima bambina mi offrì un mazzo di fiori, Cara, sembrava una gattina! Mi si strinse il cuore, stetti un po’ con loro. «Anna, com’è l’Italia? Anna, fatti vedere. Anna, dammi la mano». Care e belle facce di casa nostra, avevano quasi tutti dimenticato la nostra lingua.
Arrivammo in hotel. «Dò il passaporto?» chiesi. «Non serve – fece Natalia – qui ti puoi chiamare anche con un altro nome». «Davvero?» feci voltandomi. La giornalista era ancora lì. Mi sentii persa. Jonas mi prese per mano, e ci infilammo tutti di corsa nell’ascensore.
Su, in un confortevole appartamento, la sala da pranzo era piena di ogni ben di Dio. Champagne, whisky, liquori, cesti di frutta, fiori, fiori dappertutto. «Ma che è Natale?» pensai io. «Questo è Irvin Drutmann». «Questo è Bob Eduard». «Questa è la mia segretaria». E «Questo è Zorgniotti, il presidente della I.F.E.». Tutti erano lì a ricevermi cordiali e amichevoli. A parte un fotografo che volle per forza farmi una fotografia mentre mi lavavo il viso, il resto andò tutto bene.
«Sandro, fammi portare un caffè che non mi reggo più in piedi». Gli occhi cominciavano ad appannarmisi dalla stanchezza. «Beviamo champagne!» tuonò Jonas, l’uomo dal polso rude e dagli occhi celesti. «Ecco, questo mi ci voleva, pensai. Lo champagne alle 11 di mattina, così crollo del tutto».
E così fu. Crollai e mi svegliai alle 9 di sera. Dopo un po’, che ero sveglia, come due spiritati entrarono in camera mia Sandro e Renzo. «Anna» mi dissero con gli occhi fuori dalla testa, «vedessi le bone che ci sono a New York! Vestiti! Usciamo!».
Broadway era veramente uno spettacolo allucinante. Luci, luci, réclames luminose lungo le facciate dei grattacieli, dei cinema, dei mille teatri, luci che si accendono, che si spengono continuamente. Una rèclame, non so più di che, era fatta da una immensa cascata di acqua luminosa che occupava, credo, tre piani di un grattacielo. Tutto questo in un viavai continuo di gente, sembravano le 10 della mattina.
Avevo il capogiro, non avevo mai visto niente di simile. Finimmo al Morocco, il locale di moda. «Guarda le bone che ci sono in giro», seguitavano a esclamare i miei due compagni in preda a una eccessiva agitazione.
L’indomani domenica, mi riposai, e il lunedì si presentò da me Jonas con il programma delle mie attività. Avrebbe spaventato un capo di governo in visita ufficiale.
Mi scoraggiai, cercai di fargli capire che non avrei avuto la forza fisica di adempiere a tutti quei doveri. Mi guardava sbalordito. «Natalì, aiutami!». Lo scontro durò due giorni, dopo di che l’intesa si fece, e il mio uomo dagli occhi celesti e dal polso duro, capì, divenne umano, comprensivo e amico. Al terzo giorno il mio programma era modificato. E così cominciai.
Dei più importanti giornalisti, colonnisti, fotografi, ecc., nessuno mi ha mai posto una domanda indiscreta. I nostri colloqui erano cordiali, amichevoli e in buona fede. E’ soprattutto di questo che sono loro oggi veramente grata.
«Anna, domani sera, dopo la televisione, Shirley Booth che oggi è la più grande attrice d’America», mi dice Natalia, «offre un cocktail in tuo onore. Jonas ti chiede se vuoi conoscere qualcuno in particolare». «Bette Davis». «E’ malata, ancora convalescente dall’operazione che ha avuto». «Vorrei conoscere Judy Harrison (una piccola grande attrice che avevo visto in un film a bordo). «E’ a Boston, la inviteremo lo stesso», disse Jonas. Sorrisi all’idea e non ci pensai più.
La sera del cocktail c’era. Era arrivata in aereo. L’abbracciai forte, la guardai bene. Non mi rendevo conto come in un viso così delicato, potesse esserci tanta forza. Shirley Booth, questa grande attrice che con il suo ultimo film Come back little Sheba ha vinto due Oscar, è nella vita di una semplicità che incanta.
Fotografi, attori, attrici, eravamo circa trecento persone in un appartamento. «Anna, please, una foto con Lilian Gish». «Anna, una con Danny Kaye». «Anna, questa è una delle più grandi scrittrici d’America». «Anna, questo è il regista». «Anna, guarda chi c’è: Dino De Luca». «Please, una foto Miss Magnani!». Baci abbracci, ero stordita e incantata da tanta accoglienza, da tanta affettuosa violenza.
All’una andai via. Renzo e Sandro, che erano in amichevole colloquio con due autentiche bone, vennero via a malincuore.
L’indomani si ricominciava. Di giorno ricevevo giornalisti, e la sera si andava tutti in giro.
In una deliziosa commedia musicale trionfa Rosalind Russell; un’opera meravigliosa è Porgy and Bess con musica di Gershwin, fatta tutta da attori e cantanti negri. La sera che andammo a vedere quest’opera ci recammo poi tutti ad Harlem. Sapevo che Ray Robinson Sugar aveva un piccolo locale, e andammo a mangiare tutti lì, insieme ad alcuni attori della compagnia.
Sugar fu molto cordiale con noi, mi regalò quattro fotografie. «Ha detto che ne devi mettere una in ogni tua camera, a Roma», mi tradusse Natalia. Trovai la cosa molto divertente e cercai alla meglio di iniziare una piccola conversazione con lui, dopo un po’ ci rinunciai, parlavamo a gesti come due sordomuti, fra il divertimento generale. «Ho fame», conclusi. «Chiedigli se posso mangiare qualche cosa».
La serata fu molto divertente. Irvin e Natalia erano i miei inseparabili accompagnatori. «Natalia, traducimi, prego», e Natalia traduceva. Io rispondevo in italiano e lei ritraduceva la mia risposta in inglese. Povera Natalia, alla sera tornava a casa a pezzi.
In macchina ancora: «Anna, look at it. Questo è il grattacielo più alto di New York». E un altro signore: «Questo grattacielo è tutto di vetro, sono gli uffici del…». «Anna guarda là, quello è il ponte di Brooklyn. Anna, guarda». Mi sentivo un po’ la cugina scema, che si porta a visitare la città.
E la sera, solo nel mio appartamento al 14° piano, dietro ai vetri della mia finestra, finalmente mi gustavo New York. Bella, bella, che spettacolo! Tutti quei grattacieli neri con tutte quelle finestre accese, duecento, ventimila, duecentomila occhi spalancati nella notte, con un fondale di cielo blu scuro, e ancora luci, luci, occhi, occhi insonni, occhi senza palpebre.
E con questa visione nella mente andavo a dormire. Piano piano, man mano che il sonno arrivava, tutti quegli occhi si spegnevano dolcemente, e come per una dissolvenza cinematografica vedevo, prima confusi e poi sempre più chiari, i tetti di Roma, come la sera li vedo da casa mia.
Un mare di tetti, alti, bassi, abbracciati fra loro, stretti fra loro, e in mezzo a questo mare ecco sedute come tante matrone le Cupole della Sapienza, di Sant’Andrea della Valle, Castel Sant’Angelo, e più lontano ancora, il Gianicolo. E con Roma negli occhi mi addormentavo.
Bette Davis mi ricevette a letto, ci abbracciammo, parlammo insieme per più di un’ora, sempre con la mia inseparabile Natalia, che quando non capivo mi faceva da interprete, il che accadeva molto spesso.
Volle sapere tutto di me, parò della mancanza di libertà artistica che ha un’attrice in America, ne parlò, con rammarico, ma non parò per se stessa poichè lei non fa che le parti che ama e le fa come le sente.
Questa grande attrice ha nella vita una vitalità che sconcerta, di fronte a lei mi sentivo un agnello. Seppi più tardi che aveva prestato la sua voce per presentare al pubblico americano Bellissima. La ringrazio oggi infinitamente dell’onore che mi ha fatto.
Il giorno dopo si ricominciava. Renzo e Sandrò li avevo completamente persi di vista. Una mattina a mezzogiorno mi piombarono in camera. «Anna vestiti, guarda che meravigliosa giornata, andiamo sul più alto grattacielo di New York». Sembravano carichi di elettricità. «Ma non siete stanchi?». «Chi? Noi? Ma noi stiamo benissimo», risposero. Andammo.
Per arrivare fin sù, si prendono due ascensori che per la velocità ti mozzano il respiro. Lassù tutto cambiò. Questa città così violenta, dove tutto si fa di corsa, dove quasi non è permesso perdere fiato, dove non è permesso perdere tempo, dove la vita si difende con i denti, tale e tanta è la concorrenza in tutti i campi; bene, questa sconcertante città lassù ti commuoveva.
Sembrava un grande giocattolo costruito da bambini grandi. Ti veniva voglia di allungare una mano e toccarla. Restammo incantati in silenzio a guardare. Riconobbi il grande grattacielo tutto di vetro sede degli uffici… Come era piccolo di lassù!
Ridiscendemmo, sempre di corsa. «Adesso ti portiamo a mangiare da…» e fecero il nome di un famoso restaurant di New York. «Vedrai le bone che ci sono». «Ah, ah! Ce arifamo co’ le bone? E andiamolo a vede’», feci io per niente divertita.
Effettivamente il locale ne era pieno. Consumai la mia colazione nel più assoluto stato di abbandono da parte dei miei cavalieri. Quando ci alzammo, credo avessero il torcicollo a furia di guardare in giro, ma al ritorno una piccola punizione era loro destinata.
Mentre rientravamo a piedi in albergo, dalla finestra di un primo piano di un grattacielo si affacciarono sette od otto belle ragazze, si misero a salutarci con gran cenni e sorrisi. «Renzo, salutano te», fece Sandro. E Renzo tutto ringalluzzito con un gesto chiese loro: «A me?». «No», fecero quelle a gesti «Allora a me?», fece Sandro «No», fecero ancora quelle. «Allora a me?» chiesi io trionnfante «Siiiii», fecero salutandomi. «Anna, bello!». Scoppiammo tutti e tre in una risata. Finalmente le bone si erano occupate anche di me.
«Avanti!». Una mattina alle dieci bussarono alla mia porta tre studenti, entrarono nel mio appartamento e si infilarono decisi in camera. Ero a letto. «Miss Magnani, please autografo». Rimasi impietrita, con gli occhi sbarrati e firmai come un automa. «Ma che so’ matti, qui?». M’ero addormentata tardissimo. New York non mi faceva dormire: c’è nell’aria una tale elettricità, e fin che non ne hai fatto l’abitudine, i primi giorni credi di impazzire. «No, urlai, questa faccenda degli autografi alle dieci di mattina non è per me». E parlai alla direzione. «Metta il cartello fuori della porta col “prego non disturbare”», mi consigliò, gentilissimo, il direttore, «vedrà che nessuno busserà più».
Due mattine dopo, alla stessa ora, sento bussare di nuovo. Per maggior precauzione mi ero chiusa anche dentro. «Qui divento matta davvero». Tenni gli occhi chiusi per riacchiappare il sonno, mentre il sangue mi saliva alla testa. «Non rispondo, si stancheranno», e cacciai il viso sotto il cuscino. Seguitarono a bussare. Ero sicura che si trattava ancora della stessa storia, poichè i telegrammi venivano infilati di solito sotto la porta. Seguitarono ancora.
Saltai giù dal letto come una furia, e con la faccia stravolta, spalancai la porta. «Voglio dormire», urlai in faccia al primo che mi stava davanti, mentre gli altri erano a qualche passo da lui. «Non voglio essere disturbata, andate via!» e sbattei la porta con tutta la forza che avevo ancora a mia disposizione. Mi ricacciai dentro il letto ringhiando come una belva presa in trappola. Di colpo mi misi a ridere. Nella furia avevo parlato perfettamente inglese. «Ho capito», pensai divertita, «pe’ parlà inglese, me devo arrabbia’».
Non dormii più, naturalmente. Passai la giornata a mettere in ordine le mie cose, ero stanchissima: il sonno per me è il più importante nutrimento. Alle sette e mezzo di sera arrivò Natalia. «Sei pronta, Anna?». Si andava con Renzo, Sandro, Jonas, e l’inseparabile Irvin, prima a cena, e poi a teatro a vedere Danny Kaye.
«Please, Miss Magnani, autografo», mi fermò una voce mentre uscivo dall’hotel. Lo guardai: era lo studente che si era preso i miei urli e la porta in faccia.
Nel darmi il suo piccolo album, vidi che gli tremavano le mani. Lo guardai ancora, era bianco come un fazzoletto. Mi fece una tenerezza infinita. Firmai, e stringendogli le mani: «Scusatemi per stamani», gli dissi in pessimo inglese. Gli altri erano ancora con lui. Quei ragazzi avevano aspettato la bellezza di nove ore. Ma da quel giorno nessuno più bussò alla mia porta, mi aspettavano all’uscita dell’albergo.
Anna Magnani
© Riproduzione riservata
(Foto copertina: Anna Magnani e Sugar Ray Robinson)
Fine prima parte. Leggi la seconda parte…