Prepariamoci all’evento. Fellini gira il suo nuovo film dedicato alla città che lo ha visto affermarsi e lo ha consacrato regista prestigioso e fantastico: Roma.
«Farò un film che sarà un affresco – esordisce il regista -, composto di otto episodi intercalati da parti narrative… Dovevo pur porvi un limite, altrimenti sarebbe stato un lavoro sconfinato».
Assiso davanti a un gran tavolone da pranzo, circondato da giornalisti e da alcuni collaboratori, Fellini si è presentato a noi in forma smagliante, in un corretto abito scuro ma con una cravatta rosso splendente che voleva essere un palese contrasto e un inequivocabile avvertimento: l’artista sono io e la realtà la piego come voglio.
Personificazione vivente del suo mondo poetico, Fellini continua quel suo rapporto con la realtà fatta di sensazioni profonde stravolte dalla fantasia, dal ricordo deformato e affettuoso, da un senso del tragico che si stempera e si esalta nel grottesco, ma che sfugge le definizioni rigorose, le prese di coscienza assolute e inequivocabili.
«Questo film – prosegue Fellini, e il primo a non crederci è proprio lui – non sarà il ritratto del mio rapporto con la città».
Infatti, veniamo a sapere che dopo una prima parte in cui l ’autore, cioè lui stesso, non sarà presente e in cui vedremo la Roma prebellica dei libri scolastici, delle cerimonie al Milite Ignoto, dei gerarchi locali, dei viaggi di nozze dalla provincia (la Roma, insomma, che gli veniva narrata quando stava a Rimini), farà seguito una seconda parte in cui Fellini narrerà il suo primo approccio con la città, quando vi arrivò «bambino di 19 anni», come lui dice, pieno di speranze e di attese un po’ goffe di vitellone di provincia, e sarà impersonato da un ragazzo arruffato e smunto com’era allora.
«Sarà, questo, sì, il ricordo delle visioni personali della città – dice Fellini -, di una realtà magmatica che si riversa tutta sulla strada, sarà l’incontro con i romani, le affittacamere, i padroni dei ristoranti, i mille e mille personaggi di questa cittadona mediorientale, scenografica e teatrale, che comunica un senso di ottusità, ma “ottuso” — presenta Fellini — nel senso di distaccato, che non partecipa».
Ecco che balza in primo piano la nota dominante del discorso poetico di Fellini, il suo esplicito o latente autobiografismo stravolto e deformato fin che si vuole, ma ricorrente sottofondo vitale di ogni sua ispirazione. Ma vi sarà anche la Roma contemporanea, chiedo, con le sue clamorose contraddizioni, i suoi palesi e occulti compromessi, questo macrocosmo ove si catalizzano, risolvendosi o dissolvendosi, le istanze di tutta la nazione?
«Certo — mi risponde pronto Fellini —, ma avrà il tono di una chiacchierata, sarà un viaggio verso la sconosciutezza». È il modo solito del regista per svicolare, per non assumersi impegni precisi, per avere sempre disponibile il più largo margine d’imponderabile ove intervenire nei modi più liberi e congeniali.
La terza parte del film prevede, dunque, un’ampia inchiesta condotta da una mini-troupe composta da due universitari romani, da un giovane poeta di un gruppo operaio torinese, e da una giovane inglesina, fanciulla madre e hippie, scoperta da Fellini in modo avventuroso e che ha il nome della stella Taor.
Questa parte del film svilupperà il contrasto tra la volontà di questi giovani di affondare le mani nelle contraddizioni romane in modo diagnostico, scientifico, e il regista continuamente sospinto dall’affollarsi dei ricordi e dall’innato costume di penetrare il fascino della realtà alla ricerca del mito, a rappresentare quest’ultima in modo soggettivo nonostante le stratificazioni storiche o l’evidenza- cronachistica.
Una riproposta, tutta felliniana, dell’antinomia, vecchia come il mondo, del contrasto tra il «vecchio e il nuovo» che, per limitarci al campo cinematografico, ci può far ricordare certi temi ejzenstanjani tanto cari agli storici del cinema, ma non sappiamo fino a che punto presenti e vitali in una rinnovata personalità creatrice di Fellini.
Potrebbe anche essere, ma ci troviamo sul terreno fragilissimo delle previsioni, uno sviluppo e un approfondimento di quel tema sostanzialmente inespresso che è affiorato nei Clowns quando nei due personaggi del clown bianco e dell’augusto, Fellini ha adombrato uno dei problemi più discussi della cultura contemporanea, il rapporto tra l’essere e il dover essere, ponendo in moto «un nuovo meccanismo — scrive Renzo Renzi nella prefazione al volume I clowns — utile a intendere la vita nelle zone sempre abbastanza inesplorate del “doppio”».
Per ora il regista si difende, ponendo come uno schermo tra sé e la realtà che dovrà affrontare. Alla domanda diretta se porterà avanti il discorso che Renzi ha chiarito con lucida precisione, Fellini ha uno scatto: «Ma Renzi vorrebbe che io facessi la rivoluzione!».
Non è possibile proseguire una discussione che potrebbe portarci molto lontano, e non sarebbe onesto dato che un artista parla con le sue opere, che sole ci potranno dire, come anche Renzi ne fa cenno, se quel tema ha lievitato. Resta la nostra speranza che ciò avvenga, ma per ora accontentiamoci dell’aneddoto, sempre colorito e vivacissimo, quasi un esorcismo in previsione dell’imminente fatica.
«Inizierò a girare alla fine di marzo, e prevalentemente girerò in interni». Ecco dunque qualcuno che va contro la tendenza attuale di girare in esterni oppure utilizzando appartamenti, attici e mansarde personali o di amici.
È tutto ossigeno per i nostri teatri di posa in grave crisi, di Cinecittà soprattutto, ove il filn entrerà in lavorazione, e ove sono già iniziate le ricostruzioni della Roma felliniana: «Per carità – precisa con malizia e finta apprensione il regista – non pretendo certo che il film debba costare quello che è costata Roma… ».
Di fatto Turi Vusile, il produttore titolare della Ultra Film, ci è sembrato serenamente ottimista, anche se aggiunge subito dopo che questo sarà l’ultimo colosso della cinematografia italiana, l’ultimo modo di fare del cinema. E gli crediamo, anche se scorgiamo nei suoi occhi il piacere e l’orgoglio di correre l’avventura di un film con Fellini, che avrà con sé un equipe di tutto rispetto: dall’inseparabile, ormai, sceneggiatore Bernardino Zapponi all’operatore Giuseppe Rotiamo, al costumista Danilo Donati.
E per non sentirsi solo e dividere con tanti amici il piacere di rivisitare Roma, Fellini ha voluto che nel film appaiano attori romani o romanizzati in fugaci ma significative prestazioni; e così vedremo Sordi, la Magnani, Rascel, Manfredi (ciociaro immigrato), Fabrizi e Mastroìanni.
Sarà una gran festa in famiglia, che, per altro, ha già avuto inizio, con spavalda incoscienza, il giorno dei morti dello scorso anno, quando Fellini dall’alto di un elicottero (che ritornerà frequentemente nelle riprese del film) ha girato la prima sequenza: il Verano affollato di gente.
N. Ivaldi