Roma, 27 settembre 1973.
Ieri sera, qualcosa si è fermato e non soltanto in me.
Anna se n’è andata, e io ne ricordo l’ultima voce, un po’ sorda. Quasi un grido in dissolvenza: ci vediamo, Federico come sta, ma chi lo vede mai, abbracciamoci, ciao.
Poi, la pena di saperla sempre più malata; il dolore del confronto tra il suo vero stato e le notizie dei giornali; quel suo silenzio.
Un’altra solitudine irreparabile, per chi, come me, vede sfiorire intorno, giorno su giorno, un mondo di cose che sembravano eterne; persone, simboli addirittura, di quella giovanissima Italia sul filo degli Anni 40 e 50, gli anni della fine e del principio.
Gli anni di Roma città aperta, di Rossellini, dei grandi sogni, degli impegni adempiuti, delle gioie sofferte e contratte, dei trionfi vissuti con rabbia e amore.
Gli archi di un anfiteatro dove l’immagine di Anna si riproduce, in un misterioso ordine creativo, a testimoniare non solamente la sua personale grandezza, ma quella di un difficilissimo tempo; con qualche sorriso che appena nasconde l’aggrondata fatica di vivere di almeno due generazioni.
Piangerla, adesso, è un dovere e un diritto. Ma piangerla con lacrime grosse cosi, come di un lutto proprio.
La nostra amicizia nasceva dall’istinto, era, in un certo senso, viscerale.
Aleggiava intorno a lei qualcosa di cupo (che nella Lupa di Verga, in teatro, raggiunse un’incredibile, abominevole violenza carnale) al quale soccombevo.
Una forza naturale che qualcuno ha voluto interpretare quale vocazione d’arte, mentre non era che l’espressione della capacità d’urto contro le cose, che Anna possedeva congenita, appunto, come gli occhi immensi, quel sorriso vagamente affannato, il modo di camminare.
Era la sua maniera di essere, filtrata da una sensibilità quasi morbosa, da un attaccamento a ciò che era suo, da una efferatezza popolana (a volerle credere, s’intende, perché la sua grazia umana era addirittura rinascimentale; ma l’offriva a pochi) che consisteva nel non dare mai quanto non le veniva richiesto. L’unica sua moneta di scambio era l’amore, scontroso, geloso, ma onesto così come sono oneste le verità fondamentali delle donne se sono incorruttibili. E l’incorruttibilità di Anna era primitiva, sdegnosa, crudele; sulla base del dare e dell’avere convenzionali non concesse mai nulla.
Neppure in difetto o virtù del «mestiere» che si insinua, equivoco e inarrestabile, dovunque esista arte e dunque creazione. Nessuno potrà mai imputarle, ad Anna, di aver «fatto» tanto per fare.
Forse non ha fatto sempre capolavori nel suo lavoro (ma da Omero, chi lo ha sempre potuto?), tuttavia non si è mai venduta o svenduta. Scampoli per liquidazione stagionale, nella storia di Anna, non ce ne sono.
E’ stata per me, fin dalla giovinezza, un gusto fisico… perfino quando ci scontrammo, Nella città l’inferno, e la produzione inviava rose a entrambe tentando di scongiurare un dissidio preveduto prossimo, trapelava tra noi una identità che non avrebbe consentito la rottura.
Mi è stato chiesto per telefono, dagli Stati Uniti, il motivo della nostra scambievole amicizia: «Siete così diverse».
Non era vero: eravamo soltanto dissimili. Mi chiedevano: «Perché le vuoi bene?». Perché, nel suo carattere, io riscontravo un occulto richiamo, il punto d’incontro tra temperamenti affini.
Io la «sentivo», da telepate, come mi avviene ogni qual volta scopro, oltre la forma, sostanze che mi sono congeniali.
E, d’altronde, Anna era per me un mistero creativo, una esplosione che le deflagrava dentro fino a trasfigurarla.
Emozione che invariabilmente ho risentita allora che, in teatro e in cinema, mi sono imbattuta con lei.
Con Anna ero a casa, e non so spiegarmi meglio.
L’avevo ammirata (che povera parola!) fin da quando, con il grande Totò, aveva imposto al teatro di rivista un’altra dimensione. Quella sua maschera pesava come se fosse graffita d’oro, la segnava di imperscrutabili dolcezze.
Chi non l’ha conosciuta di persona non saprà mai quanto era bella, di una bellezza scolpita a mano, perfino brutale, in certi istanti, ma densa di straordinarie intenzioni.
Se è vero che ognuno di noi risponde a un tipo animale, Anna era il ritratto traslato di una leonessa. Ne aveva i pigri fianchi, la armoniosità latente: ma tutto a un tratto, come da un lontanissimo passato, emergevano da lei verità umane sconosciute ormai per quanto erano antiche.
Chiunque l’abbia ascoltata nella Voce umana di Cocteau, e nel film Amore, che Fellini scrisse per lei, e che Rossellini realizzò sul piano dell’opera d’arte totale, non la dimenticherà mai, per sempre.
Non sono, finora, esistite attrici capaci, come Anna, di restituire alla voce, alla parola, la potenza quasi empia di una rivendicazione perfino nei confronti di Dio.
Ricordarla, voce lei stessa, è un malessere arcano, un disagio senza possibile pacificazione. Adesso se n’è andata, priva di volontà in una volontà più grande.
Siamo stati in molti a piangere, stanotte, anche perché in quel suo apparire alla televisione, nel grido della morte sulle scale, straziava l’anticipazione di un lamento che è stato il suo.
Sono contenta che Roberto Rossellini le sia stato vicino, che tutto, intorno a lei, sia pure nell’istante della morte, ogni cosa che le fu cara si sia ricomposta armoniosamente.
E Luca, suo figlio, doppiamente, mortalmente ferito, di pietra per quel corpo di pietra che fu sua madre.
Io l’ho vista, Anna, non importa, io ti ho voluto bene.
La grandezza è una cosa, l’umanità un’altra.
Nel corso della vita, anche l’arte è un tempo relativamente caduco, un’essenza che certamente svanisce. Non sprofonda, invece, il vuoto che lascia chi amammo, una fessura, una frattura nel nostro povero, personale infinito.
Grazie di essere vissuta, Anna.
Giulietta Masina
(Foto copertina © Di Giovanni, D’Aloisio)