Dopo la scomparsa di Anna Magnani resta la sensazione precisa che il meglio di lei sia rimasto sepolto, nascosto, appena intravisto nella stilizzazione straordinaria eppure ripetitiva di alcuni modelli autenticamente popolari
Il giorno in cui morì Totò, all’improvviso, il 15 aprile del ’67, fui incaricato di curare un programma televisivo su di lui per la sera stessa: una trasmissione tutta «in studio», con film, personaggi, materiale di repertorio, collegamenti; giornalisticamente – come si dice in gergo – avventurosa, con il fiato caldo dell’attualità, registrata sino alle soglie dell’andata in onda.
Tra le prime telefonate chiamai lei, Nannarella. E lo feci con apprensione. La conoscevo bene, sapevo con quanta viscerale repulsione detestava la telecamera, gli omaggi che sembrassero ufficiali, e come la morte, comunque, la terrorizzasse.
Le chiesi di venire in studio a parlare di Totò. «Posso dire quello che voglio?». «Certo».
Un lungo silenzio.
«Non sono mai stata davanti a una telecamera. Dov’è via Teulada?».
Arrivò puntuale, minuta, fosca, il viso pallido; si mise in un angolo, aspettando il turno, con quell’aria afflitta e tagliente e la plebea regalità che erano il suo contrassegno.
Parlò accorata, senza enfasi, le lunghe mani nodose intrecciate, con il suo timbro di velluto duro.
Disse del talento di Totò, dei palcoscenici di varietà da cui discendeva, del mondo famelico che turbinava attorno ai suoi lazzi e alla mordace comicità.
Poi aggiunse – e il nero dei suoi occhi in primo piano s’incupì, se possibile – che il cinema italiano aveva un grosso debito nei confronti di Totò; più che un debito una colpa, quella di averne dilapidato il patrimonio artistico in troppi film dozzinali; di non essersi accorto, tranne che in pochi casi, della monumentale grandezza di lui; di non averne sfruttato, nel senso migliore della parola, il tesoro nascosto.
Parlava di Totò con ferma emozione, con lucidità, ma ci si accorse anche che parlava di sé, delle insoddisfazioni, della solitudine, del suo sentirsi incompleta e tagliata fuori, museificata nel ricordo, bloccata nello stereotipo d’oro della popolana scarmigliata che urla dietro un camion nella Roma tetra occupata dai nazisti.
Il modulo romantico dell’artista, del comico, dell’attore insicuro e insoddisfatto è sempre in agguato, come un’ombra.
A frugare nella cortina di mistero appaiono i fantasmi della Duse, della Garbo, di Marilyn e l’alone mitologico sopravanza, spesso, la nuda verità.
Tuttavia per Anna Magnani, al di là di quanto è stato detto celebrandone spesso frettolosamente il ricordo (ma anche questo, si badi, è un ricordo putroppo frettoloso), la sensazione precisa che rimane dopo la sua scomparsa è – come per Totò – un senso di incompiutezza e di frustrazione: il rendersi conto che molto ancora avrebbe potuto dare; e che certo più grave, il meglio di Anna Magnani è rimasto sepolto, nascosto, appena intravisto nella stilizzazione straordinaria ma ripetitiva di alcuni modelli autenticamente popolari.
In tal senso molto è stato detto a proposito del carattere e della sua formazione culturale, della sua istintiva spigolosità, del suo candore, dei suoi pudori altrettanto istintivi (lei così pronta alla battuta sapida e alla verifica realistica di ogni forma di ipocrisia), insomma della difficoltà di mettersi d’accordo con la Magnani attrice.
E Montanelli, con una certa lugubre irriverenza frammista alla affettuosa familiarità della rievocazione, ha ricordato la sua «ignoranza», la sua «non intelligenza».
Certo non era attrice «colta», ma nemmeno faceva professione di sciocco snobismo intellettuale; intelligentemente, perchè era intelligente, era consapevole di propri limiti culturali, ma aveva – e giustamente – un gran concetto di sé come attrice. Con un’amarezza di fondo: di essere destinata – per certe leggi inesorabili dello spettacolo, e di quello italiano in particolare – a una sorta di iconografica rappresentatività: un modello di italiana umorale e senza veli, animata da passioni autentiche, tenacemente legata ai vincoli del sangue, piena di rabbie, di folgorazioni, di disperazioni e di amore.
Ed è così che l’hanno vista, e per molto tempo la ricorderanno, milioni di spettatori, viva e sanguigna e anelante, dispoticamente signora della scena o dello schermo, come si diceva una volta; lei che era arrivata dalle passerelle dell’avanspettacolo, procace ma non bella, maliziosa ma incapace di sofisticazioni, a rappresentare la schiettezza e la virulenza di un certo tipo di donna italiana, la Pina di Roma città aperta e la Maddalena Cecconi di Bellissima, la madre (italiana, si badi, senza «transfert» hollywoodiani) che inconsciamente incanala nella figlioletta che si presenta a un concorso per film le proprie rivalse di donna frustrata, una sorta di amore cieco e gratificante, gonfio di collere e di mortificazioni contenute. (Questa era la Magnani, così come la vide acutamente Visconti, facendone una specie di prototipo della donna della piccola borghesia italiana negli anni Cinquanta).
E non dimentichiamo che nel nostro cinema di quegli anni, prima di arrivare alle eroine borghesi di un Antonioni, l’unico rimando credibile, l’unica vera immagine femminile, riconoscibile in ogni casa, registrabile dal vivo fu quella data, e sofferta, da Nannarella, emblema ribollente di una non cieca consapevolezza, di una forza della natura, come fu detto in seguito.
Non a caso, in quegli anni, lo scrittore Corrado Alvaro, osservatore attento delle trasmutazioni della nostra realtà attraverso i volti dei suoi protagonisti, aveva annotato: «Anna Magnani può condurci dove vuole, dallo schermo, tanto la memoria e la fantasia dello spettatore si affidano a ciò ch’ella va rintracciando e riproducendo della realtà, con una felicità di osservazioni e una forza di rappresentazione, con una verità e un apoesia della vita che fanno di una tale attrice un fenomeno unico. Ella può darci un ritratto esemplare di donna italiana, di quelle che hanno spazientito tanta lettaratura e che è stato sempre ambizione di scrittori italiani e stranieri poter raffigurare».
Il ritratto esemplare ci è stato consegnato, pur con la malinconia di una più variegata, mancata, sfaccettatura.
Per la Magnani l’operazione da compiere, ancora una volta, è simile a quella che ormai da tempo andiamo facendo con Totò: rintracciare nella montagna di fotogrammi, a parte le grandi interpretazioni in testi ormai giudicati clasici, il mosaico che ci restituisca il suo volto completo, l’ampio corso della sua umanità.
In tal senso il recupero che ne ha fatto la televisione, nei quatro telefilm di Giannetti – La sciantosa, 1943: un incontro – L’automobile e ultimo trasmesso, 1870 -, ha avuto non soltanto il sapore di un omaggio doveroso alla più grande e solitaria attrice del nostro tempo, ma ha costituito per decine di milioni di spettatori un impatto senza precedenti con un volto femminile simignificante della società italiana.
Una riproposta che ha avuto lo stesso carattere incisivo del ciclo dedicato, alcuni anni fa, al teatro di Eduardo e al suo impareggiabile interprete. (Non si dimentichi che uno spettacolo come Mia famiglia, dato da Eduardo al Carnignano di Torino, ebbe un tiepidissimo riscontro di pubblico, così come la Magnani, a un certo momento della sua carriera, nonostante l’Oscar e gli osanna della critica, per produttori e noleggiatori «non faceva cassetta»).
Anna fu silenziosa, lontana dai fasti del rotocalco, ombrosa nel chiuso della propria vita privata.
Sino all’ultimo, però, segno inconfodibile della sua umanità, nei ritmi della sua cronaca grigia – «che non faceva notizia» – e entrato come un leit-motiv il pensiero assillante per il figlio Luca, l’essere sfortunato sul quale aveva condensato, il suo grande bisogno d’amore e di tenerezza.
Da attrice belluina, così come amiamo ricordarla, e da donna stoica (un’immagine meno facile da rappresentare) ha riversato spesso nei suoi personaggi l’empito prorompente della maternità, in un arco di commossa, spesso stravolta, partecipazione, da lasciare imbarazzati e attoniti.
Basterebbe pensare a un film minore, come Suor Letizia di Camerini, che nel settembre del ’56 a Venezia riaprì, dopo la parentesi americana, il dialogo con il pubblico italiano.
In quel film, qua e là edificante, spesso melodrammatico, la Magnani interpretava una suora sotto il cuo soggolo confluivano molti dei filoni, pittoreschi o sentimentali, di Nannarella, e naturalmente molti dei suoi vezzi, dei suoi «giochi» d’attrice consumata: ma in un attimo, di fronte al piccolo Salvatore che bruscamente le scopre i capelli, ecco la tragica Magnani, rivelatrice, in un lampo di un terribile, insopprimibile istinto materno.
E così, più tardi, in Mamma Roma di Pasolini, ecco di nuovo Nannarella struggersi, divampare, urlare come una iena accanto a Ettore, «il figlio burino», nel cupo scenario della borgata Prenestina.
Ricorda Pasolini nel diario di lavorazione del suo film: «Stava davanti allo specchio, con la sua angosciata tranquillità, la sua scontatezza, il suo impeto. Quello che doveva chiedermi era se quel giorno poteva recitare senza la parrucca (che di solito si mette, per comodità) in quanto voleva avere la faccia “sua”, per recitare l’ultima scena del film. La scena in cui le viene annunciato che suo figlio Ettore è morto e lei fugge urlando verso casa».
Anche Totò, senza capire sino in fondo le intenzioni del regista di Uccellacci e uccellini, aveva chiesto un giorno qualcosa di simile. Ambedue, così diversi, appartenevano alla stessa famiglia.
P. Pintus