La colpa più grave della cinematografìa italiana — quella che i tecnici di queste cose assegnano alla categoria dei «peccati contro lo Spirito Santo» e giudicano senza possibilità di remissione — è nell’aver ecceduto nell’esportazione di carne. «Toujours perdrix»: l’abbondanza ha provocato la noia. La noia, il fastidio. Il fastidio, lo scandalo.

Già in molti Paesi a fondo quacquero questa carne italiana d’esportazione è guardata con diffidenza e sospetto.

L’ignoranza delle cose nostre all’estero è grande e di certo non giovano a dissiparla le « ambasciatrici d’italianità» che, di quando in quando, diramiamo ai quattro angoli del mondo, con lo scopo principale di richiamare l’attenzione sulla nostra produzione pellicolare e quello subordinato di rinfrescare la memoria sulla nostra terra di santi, di eroi e di poeti.

Care ragazze, brave ragazze, splendide ragazze, le «ragazze-carne», come le chiamano gli inglesi, han tutto da guadagnare — al pari di certa pittura — ad essere viste in distanza: più cresce la distanza più ci guadagnano.

Imperdonabile leggerezza, quindi, quella di coloro che s’ostinano a farle toccar con mano ora dai turchi, ora dagli svedesi, ora dai tedeschi. Errore enorme: sia pur lentamente, com’è loro costume, questi popoli «realizzano» che esse sono «effettivamente» carne, «tutta» carne, «solo» carne. E se ne sgomentano, e cessano di adorarle; perché eran persuasi, senza aver troppo approfondito, ch’esse fossero concetti platonici.

Solo noi, loro compatrioti, sappiamo da sempre che non lo sono e soffriamo (moderatamente) per loro quando ci accade di cogliere nelle cronache di giornali stranieri il sottinteso ironico onde sono descritti i fatti memorabili delle nostre dive in trasferta e riportati — ahimè — i loro detti.
Una almeno si salva, lodiamo Iddio (o chi per Esso), la quale non ha bisogno di far inchini e riverenze ai potenti, né pellegrinaggi in nessuna terra più o meno santa e neppure di tenerci al corrente delle proprie vicissitudini anatomiche per occupare — senza sottintesi ironici — le cronache dei giornali di tutto il mondo.

Si chiama Anna Magnani, attrice drammatica, e il suo nome è legato a quanto di più durevole ha prodotto il cinema italiano dal 1945 in qua, da «Roma, città aperta» a «Bellissima»; l’unica che sia stata chiamata a interpretare un film in America non in seguito a complicate alchimie finanziarie ma proprio e soltanto per se stessa, perché si chiama Anna Magnani; perché non è il prodotto d’uno dei tanti, formidabili «uffici stampa», sui quali poggiano le fortune di così gran parte della nostra industria cinematografica, ma perché ha il temperamento di Anna Magnani, il talento di Anna Magnani: qualità che non si possono fingere, non a lungo quantomeno.

Ora le è stato assegnato dai critici di New York con 13 voti su 16 il premio per la miglior interpretazione femminile dell’anno (quella di Serafina nel film «The rose tattoo», «La rosa tatuata» tratto dalla commedia di Tennessee Williams). E nessuno — caso raro — ha trovato niente da ridire: non ci sono state riserve, non contestazioni, non recriminazioni. La stampa, per spiegare con un esempio la qualità dei sentimenti provati assistendo alla prima del film ha evocato come termini di paragone i nomi di Eleonora Duse e Greta Garbo.

Scrive il New York Times: «Mai prima d’ora ci è accaduto di essere posseduti da un’emozione così intensa, nemmeno quando sui nostri schermi appariva Greta Garbo. Forse soltanto Eleonora Duse avrebbe potuto eguagliare in sensibilità l’attrice di ‘Roma, città aperta’».
Rincalza la Saturday Reviev of Literature: «…un evento del genere si verifica una volta sola nel corso di un’intera generazione. Mai Hollywood ha avuto occasione di vedere un’interprete come Anna Magnani. Nulla ha potuto l’apparato hollywoodiano contro la personalità dell’attrice: essa non si è lasciata travolgere. Ha vinto. Per la prima volta un’attrice straniera si è preso il lusso di ignorare Hollywood, di sconfiggere Hollywood… ».

L’elenco delle citazioni potrebbe seguitare: ma non è il caso di riproporre alla Magnani, tradotti, i ritagli stampa che le sono ormai pervenuti in lingua originale. Constatiamo invece, che il successo di Anna Magnani in America — di questi tempi in cui la dignità dell’attore è ogni giorno più compromessa, complice il complesso autolesionistico degli stessi interessati — rappresenta qualcosa come una inconsapevole, splendida, generosa vendetta. Senza attore non vi può essere vero teatro né vero cinema ma, tutt’al più, ingegnosi surrogati dell’uno e dell’altro.

E’ una verità che tutti quanti fìngiamo, spesso e volentieri, di aver scordato. Anna Magnani è giunta in tempo a farcela tornare a mente: sarà opportuno che i primi ad esserne di nuovo convinti siano i suoi colleghi in arte, i meno solleciti, i più dimentichi della loro essenziale funzione nel nascere di questo mistero creativo che si chiama spettacolo.

Che quella di «Annarella nostra» sia stata un’enorme interpretazione è ancora dimostrato da un particolare su cui le cronache non si sono — a nostro avviso — soffermate abbastanza. Se n’è accorta persino Marilyn Monroe che, domandata di che cosa pensasse di Anna Magnani: «What do you think of Magnani?», ha risposto con un sospiro: «Divine, just divine», «è divina, semplicemente divina… ».

Questa «Rosa tatuata», questa Magnani nella «Rosa tatuata», dicono i critici americani, è veramente una cosa che muove le montagne. Lo crediamo.

G. Cane


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