Nella città l’inferno, girato nel 1958 sotto l’attenta regia di Renato Castellani, presenta già nel titolo una realtà contorta, confusa, ambigua.

La storia si svolge interamente in un carcere femminile, quello romano delle Mantellate (cantato poi, con struggente verità, anche da Gabriella Ferri) e fotografa una realtà che è in fondo anacronistica.

Il carcere è il luogo dell’assenza del tempo, nel quale i giorni trascorrono in una inevitabile indeterminatezza e le recluse vivono senza vivere. Isolate dal resto del mondo, le donne sviluppano un agglomerato di società, nel quale sorgono amicizie e inimicizie, gesti d’affetto e incomprensioni, ma tutte unite dal medesimo destino: costrette, seppur per un tempo determinato e/o determinabile, in cella.

Il personaggio di Anna Magnani, Egle, spicca per apparente sfrontatezza e disillusione.

Sembra ormai accettare quella vita, arrivando persino a vantarsene e ad esserne fiera. Comanda, è suo il ruolo di capo in quella piccola comunità di sole donne.

Lei detta ogni regolamento interno e controlla che ogni precetto venga rispettato dalle sue compagne. E’ una donna forte, verbalmente e fisicamente aggressiva, temprata dalla vita, ma capace anche di ridere e condividere purché nessuna delle altre usurpi il proprio ruolo. Sa di essere una figura ambigua, ma non se ne preoccupa affatto.

Le sue compagne di celle e non hanno imparato a riconoscerne l’autorità e persino le monache (che gestiscono l’istituto) tollerano tacitamente i suoi eccessi e la sua vulcanica personalità.

L’arrivo di Lina (interpretata da una giovane Giulietta Masina), ingenua servetta veneta accusata ingiustamente di concorso in furto in appartamento dei suoi padroni, sconvolge quell’equilibrio e costringe Egle a porsi domande su di sé, sul futuro e sulla realtà carceraria.

Egle, difatti, convinta di farne una sua protetta, quasi una sua copia, viene lei stessa cambiata da questa ragazza che è espressione di ingenuità ed innocenza morale. Il personaggio comincia così un processo di evoluzione, che culminerà con l’ammissione di una sconfitta e la conseguente voglia di ricominciare, di cambiare vita, di non tornare mai più alle Mantellate. La donna dimostra la sua nuova volontà con un gesto di disperata vitalità.

Con rabbia e disgusto, ormai consapevole, si ribellerà alla nuova Lina (tornata in carcere). Egle in quel momento vedrà in lei tutto quello che è stata e che non vuole più essere, un modello che non le appartiene. Non è quella la Lina che Egle riconosce e le strappa di dosso quei vestiti simbolo di vanità e superficialità, accusandola e rimproverandola di aver perso la sua vera identità (“sei fracica dentro mò!”). Lina è colpevole di essersi arresa, di aver perduto, di non aver combattuto per una vita migliore ed Egle stessa si ritiene in parte responsabile di quel fallimento.

Tuttavia, l’ultimo barlume di speranza è rappresentato dal personaggio di Marietta (Cristina Gaioni), con la quale Egle aveva instaurato un rapporto conflittuale perché incapace di piegarla al suo volere e che aveva deciso di crearsi una nuova vita fuori da quelle mura, sposandosi con l’uomo che amava.

Egle le riconosce nobiltà d’animo e coraggio e la protegge dagli scatti indiscreti dei fotografi e giornalisti venuti nell’istituto. La commozione di Egle in seguito al “grazie” di Marietta per averla tutelata rappresenta la più compiuta realizzazione di una metamorfosi etica ed estetica del personaggio della Magnani.

Spostando l’attenzione su aspetti di ordine sociologico, morale e giuridico, possiamo notare come la storia narrata nel film abbia anche il merito di mostrare un riscatto (seppur non materialmente compiuto) e la reclusione è vista, drammaticamente, come funzionale al sorgere di una nuova coscienza del condannato ai fini di un ottimale reinserimento nella società e ad un effettivo perseguimento dei valori condivisi.

Principio, quello della rieducazione del condannato, sancito dal comma 3 dell’art. 27 della nostra Costituzione Repubblicana (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), quale espressione di un compromesso ideologico tra opposte scuole di pensiero ed opposte forze politiche presenti nell’Assemblea Costituente.

Il Legislatore, che pure non si occupa degli stati interiori dell’individuo, fissa un principio di portata generale che si estende a realtà eterogenee: la pena quale mezzo, la rieducazione quale fine. Rieducazione quale futura osservanza delle leggi, ma anche come redenzione morale e spirituale dell’autore dell’illecito.

“Nella città l’inferno” contrappone l’inferno interiore ed empirico alla speranza di andare oltre, di vivere quella città che, nei suoi limiti, è pur sempre luogo di autodeterminazione dell’individuo libero e cosciente.

di Mariangelica Lo Giudice
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