NON è facile trovare nel mondo del cinema italiano uomini con i quali sia possibile fare un’intervista un po’ approfondita: o ci si trova di fronte a persone infatti del tutto sprovvedute, e allora il discorso cade immediatamente nel nulla; o di fronte ad artisti puramente istintivi, e allora il dialogo si fa assai faticoso e spesso altrettanto inconcludente perchè mancano di una visione concettuale sufficientemente chiara.
Luchino Visconti costituisce una delle rare eccezioni a questa regola: proprio perchè ha il privilegio di unire a un autentico temperamento una solida cultura e una precisa coscienza critica. Ma l’intervistatore, in questo caso, corre il grave pericolo di appassionarsi a un dettaglio, a un problema particolare e di dimenticare così lo schema e in certo senso anche lo scopo dell’intervista.
Ed è quello che è successo a me con Visconti: infatti, per quanto inizialmente fossi stato proprio io a insistere perchè le sue risposte rimanessero dentro il binario fissato, in un secondo momento fui io stesso a provocare alcune digressioni, spintovi dal particolare interesse che avevo per certi argomenti.
Cosicché l’intervista risulterà, – spero – ugualmente interessante, ma in certo qual modo monca, limitata: e ne chiedo scusa ai lettori. Comunque cercherò di completarla al più presto, se Visconti sarà così gentile da concedermi altre due ore di tempo.
– Può dirmi per quali ragioni ha accettato di dirigere “Bellissima” il cui soggetto è, almeno apparentemente, così diverso da quelli da lei realizzati precedentemente?
– La scelta di un soggetto piuttosto che di un altro non dipende esclusivamente dalla volontà del regista. Occorre anche una combinazione finanziaria che permetta di realizzarlo. Dopo che avevo dovuto rinunziare a “Cronache di poveri amanti” e a “La carrozza del Santissimo Sacramento”, Salvo D’Angelo mi propose il soggetto di Zavattini.
Da molto tempo desideravo girare un film con la Magnani: e siccome era appunto la Magnani l’interprete prevista per “Bellissima”, accettai. Mi interessava fare una esperienza con un “personaggio” autentico, col quale si potessero dire certe cose più interiori e significative. E mi interessava anche conoscere quale rapporto sarebbe nato tra me regista e la “diva” Magnani. Il risultato è stato felicissimo.
– Ha inteso fare un film di ambiente o di personaggi?
– Un film su un personaggio. Si tratta in sostanza della storia di una donna, o meglio di una crisi: una madre che ha dovuto rinunziare a certe segrete aspirazioni piccolo borghesi, tenta di realizzarle attraverso la figlia. Poi si convince che, se un miglioramente si può raggiungere, è in tutt’altra direzione. E alla fine del film ritorna a casa “pulita” come è partita. Con la consapevolezza di aver amato male la sua bambina e con in più l’amarezza per certe pratiche attraverso le quali è stata costretta a passare per arrivare a un mondo che credeva meraviglioso, e che in sostanza non era che deplorevole.
– Ha apportato molte modifiche al soggetto originale di Zavattini?
– Si, molte. Innanzi tutto, il protagonista, che nella storia di Zavattini era un impiegato, è diventato nel film un operaio e di conseguenza l’azione, che si doveva svolgere al quartiere Annibaliano, è stata spostata in periferia e precisamente al Prenestito. In secondo luogo, mentre nel soggetto di Zavattini la bimba veniva definitivamente scartata, nel film viene scelta per fare la protagonista, ed è invece la madre che, dopo essersi battuta con ogni mezzo per far di sua figlia un’attrice, accortasi del suo errore, rifiuta di firmare il contratto.
Queste sono le principali modifiche strutturali. Ma durante le riprese ne ho fatte molte altre, seguendo una strada notevolmente diversa da quella tracciata da Zavattini e da quella prevista dalla sceneggiatura. Anche I dialoghi sono stati completamente cambiati. In questo mi è stata molto utile la Magnani, perchè con lei si può lavorare per improvvisazione.
– Non risulterà un troppo evidente contrasto tra la recitazione della Magnani e quella della bambina e dell’operaio che erano alla loro prima esperienza di attori?
– No, affatto. Perchè la Magnani ha una recitazione piena d’istinto popolare, che non ha niente a che fare con il teatro di mestiere. Sa mettersi al livello degli altri, e in un certo modo sa portare gli altri al suo. Io ho puntato essenzialmente su questo particolare e straordinario aspetto della sua personalità.
D’altra parte sia Gastone Renzelli (l’operaio) e sia Tina Apicella (la bimba) hanno corrisposto perfettamente alle mie aspettative. Specie quest’ultima, che ha dimostrato di avere una intelligenza e un istinto non comuni. Dopo quindici giorni conosceva tutti i trucchi del mestiere. Tanto che, a volte, ci lasciava perplessi. In una scena, a esempio, doveva piangere: stava calma e tranquilla fino all’inizio dell’azione: appena davo il “ciak”, cominciava a piangere, allo “stop” smetteva. E questo per dieci quindici volte di seguito. Una bimba di cinque anni e mezzo!
– Quale metodo segue per ottenere le giuste reazioni dagli attori non professionisti? Il suggerimento, la suggestione?
– Tra il suggerimento e la suggestione. Suggerisco agli attori gli argomenti ed essi provano a esprimerli a modo loro: lentamente, attraverso questo lavoro di collaborazione immediata, la scena viene messa a fuco, centrata. Per dare poi agli attori una maggiore carica di verità, lascio sempre un grande margine, di battute e di azione, prima e dopo la scena utile.
Questo metodo funziona perfettamente anche con la Magnani che, a freddo, non riuscirebbe mai a trovare battute ugualmente felici.
– A quanto mi sembra di capire, la sceneggiatura non è per lei che una sorta di canovaccio un po’ come nella commedia dell’arte.
– La sceneggiatura serve come base: è l’ossatura del film. E occorre averla sempre presente. Ma nè l’azione nè il dialogo definitivi si possono predisporre. Nei film realisti i personaggi non possono dire le cose che in un certo modo: bisogna trovarla. Del resto io penso che l’autore del film deve essere uno solo: il regista.
Con questo mio metodo di lavoro, il “vero” film nasce sul posto. E direi che la cosa più importante è la scelta degli attori, cioè dei personaggi. Una volta che si sono trovati, una buona parte del film è già fatta.
– Il suo modo di lavorare mi sembra adatto a un solo tipo di film. Non crede infatti che quando si miri a portare il cinema al livello della migliore produzione teatrale e letteraria, esso si riveli inadeguato? Non pensa in sostanza che in tal caso occorra basarsi da un lato su un testo più approfondito ed eleborato già in partenza, e dall’altro valersi di attori assolutamente padroni della tecnica della recitazione? Anche la più recente teorica sovietica a esempio, sostiene che l’attore deve avere una solida preparazione tecnica e culturale, e deve collaborare alla sceneggiatura.
– Ognuno ha il suo metodo, il suo punto di vista. Ma per quanto mi riguarda gli attori, insisto nell’affermare che se uno ha talento, se ha veramente l’istinto cinematografico, si può portarlo a dire le battutte più difficili. Occorre solo, ripeto, lavoro e tenacia.
– Ma il fatto di girare con attori non professionisti, implica tra l’altro, la triste necessità del doppiaggio.
– No. Io giro sempre in presa diretta. De Sica, è vero, fa doppiare i suoi attori. Ma allora tutto è finito. Tutto perde di senso.
Come ho già accennato, se uno ha talento, può “dire” bene anche le più complicate battute. Il guaio è piuttosto che non si sanno scoprire gli attore: eppure l’Italia ne è piena. I concorsi di bellezza, a parte quello che c’è dietro, non hanno senso. Si fa la selezione dei seni e delle gambe, non dei temperamenti.
Le “misses”, in genere, non valgono niente: sono qualche volta belle, ma sono cretine. Non sanno parlare, non sanno muoversi: non hanno vere qualità di attrici.
Poi, appena fatto il primo film, non si preoccupano che di firmare nuovi contratti e di guadagnare nuovi milioni. Non pensano affatto a studiare. Perciò, anche se hanno un po’ di talento, entro breve tempo si guastano.
– E come si potrebbe rimediare?
– Cambiando il criterio di scelta, e creando scuole su scuole, ma serie. E poi mandare Gastone Renzelli a scuola, Tina Apicella a scuola.
– Quale è la diversa funzione del regista nel teatro e nel cinema, secondo la sua esperienza?
– Non c’è nessuna differenza sostanziale. Snche in teatro bisogna scegliere gli attori che possano dire “naturalmente”: bisogna affidare cioè a ognuno la parte che gli dia la possibilità di esprimere con sincerità le sue tendenze naturali.
– Come mai in teatro sembra preferire le messe in scena vistose e in cinema affronta sembre ambienti estremamente realistici?
– Il cinema e il teatro hanno due compiti diversi: servono per dire cose diverse. I mezzi del cinema permettono di “ficcare il naso” nella realtà quotidiana, il teatro per portare certi testi a conoscenza del pubblico. Del resto non sono molti gli spettacoli fastosi a cui si riferisce. E alcuni, specie quelli subito dopo la guerra, li ho messi in scena in quella particolare maniera anche per richiamare il pubblico.
– Molti critici la accusano di formalismo, specie in “La terra trema”. Cosa può rispondere?
– Rispondo che sbagliano. Io non elaboro mai l’inquadratura. Non ho mai pensato all’inquadratura di per se stessa.
Ogni inquadratura è la conseguenza della precedente: la naturale conseguenza. “La terra trema” è stato girato con grande modestia. C’è stata semmai la preoccupazione contraria: di una assoluta nudità.
– Renzo Renzi, in un suo articolo, si chiedeva come mai, in un film come “La terra trema”, che voleva documentare una situazione reale, non si fa cenno all’esistenza dei partiti e dei sindacati.
– Appunto perchè non volevo alterare la situazione reale. E il panorama politico di Acitrezza mentre giravo il film era questo: cinque qualunquisti e il resto indifferenti. Non esistevano partiti e tantomeno sindacati. Del resto, anche uomini politici mi hanno fatto questa domanda, me l’ha fatta Togliatti stesso. E io ho risposto che non c’era altro da fare che occuparsi di più di Acitrezza.
– Lei pensa di appartenere alla corrente neo-realista italiana? E in caso affermativo, in che si distingue da un De Sica, a esempio, o da un Germi?
– Penso che sarebbe meglio parlare di realismo, semplicemente. Indubbiamente lavoro in quella direzione. Il grosso errore a mio modo di vedere, di Germi e anche di De Sica, con tutta la stima che ho per loro, è quello di non partire da una realtà sociale effettiva. Esistono i barboni, esiste Lambrate, esistono gli emigrati clandestini; “finali” come quello di “Miracolo a Milano” e di “Il cammino della speranza”, nella realtà sociale non esistono.
A mio parere si tratta di una pericolosa mescolanza di realtà e di romanticismo. Nel finale di “La terra trema” ci sono più promesse e più speranze che nel volo dei barboni a cavallo delle scope. Non si può e non si deve uscire dalla realtà. Io sono contro le evasioni.
– Un’altra domanda: vuol dirmi qualcosa sulla situazione attuale del cinema italiano? E quali sono i suoi problemi più gravi?
– Le rispondo in due parole: la situazione è disastrosa. Il problema più grave è quello dei soggetti: la materia trattata è di un livello bassissimo e spesso raggiunge una estrema volgarità. Siamo di nuovo in periodo di involuzione.
– Cosa è per lei un soggetto? E’ d’accordo con Clair quando dice che “un bon scénario doit se pouvoir se raconter en quelques phrases”?
– Il soggetto è anche una parola. Una parola che metta in moto la fantasia e la carica umana del regista che ascolta.
M. Gandin