Nel 1933, subito inabissatasi nel mar dell’oblio, al teatro di Noto, musicata dal maestro Pierantonio Tasca, andava in scena un’opera: La lupa, tratta dall’omonima novella di Giovanni Verga, forse la sua più bella.
Memore dei rospi inghiottiti con Cavalleria rusticana che aveva dato luogo a una rancorosa diatriba a proposito dei diritti d’autore, finita in tribunale a colpi di carta bollata, questa volta, facendosi dare una mano da Federico De Roberto, l’autore in persona aveva provveduto alla stesura del libretto.
Ciò era accaduto una quarantina d’anni prima, quando, suggestionato dal colpo tanto fortunatamente messo a segno dal suo emulo Mascagni, Puccini aveva espresso il desiderio – erano gli anni prima di Bohème – di rivestirlo di note. Fortunatamente, poi non ne fece nulla; non so che cosa sarebbe potuto venir fuori dal connubio fra il realismo epico del catanese e l’intimismo veristico piccolo-borghese del maestro di Lucca. Ne guadagnò il teatro di prosa.
Caduto il progetto, Verga aveva disfatto e rifatto tutto daccapo, riportando in prosa il dramma, affidato – 1896 – alla Compagnia di Virginia Reiter e Flavio Andò, e fu soltanto un successo di stima.
Nel 1921, lo riprendeva la povera Maria Melato e fu un successo convinto.
Ora l’ha messo in scena, al teatro della Pergola, il “Maggio fiorentino”, regista Franco Zeffirelli e protagonista Anna Magnani, ed è stato un trionfo.
Che il dramma superi la novella come era accaduto per Cavalleria, no, senz’altro; che ne rinnovi l’allucinante rapinosa stringatezza, dove la parola viene sempre superata, distrutta dalla cosa, nemmeno.
Si direbbe che la prospettiva melodrammatica attraverso cui era passato abbia lasciato la sua traccia in un difetto strutturale che lo rende, ad un tempo, scheletrico e dispersivo; dove l’ambiente, continuamente tentato di frantumarsi nella macchietta e nell’episodio, tende a prevaricare sul dramma il quale, di conseguenza, risulta fin troppo secco ed asciutto.
Ma c’è poi il compenso di una maggiore densità di spessori umani e morali, articolati in una più ardita e complessa azione psicologica; anche se impulsi, passioni, sentimenti e pensieri rimangono elementari, nell’irreparabile vicenda di quella atroce madre che fa sposare la figlia al giovane bramato fino allo spasimo, oltre ogni vergogna e ogni scandalo, pur di legarlo a sé, al suo cuore e ai suoi sensi, e stregata, stregandolo, lo trascina nella sua stessa dannazione fino a farsi uccidere da lui stesso; una sorta di suicidio espiatorio per interposta persona, incurante alla disperazione della propria figlia.
In Cavalleria, diciamolo, l’insidia della granguignolesca tranche de vie sta acquattata dietro ad ogni battuta.
Qui ogni battuta – nude battute di una potenza, alcune, addirittura insostenibile! – è intrisa nell’inquietante mistero della fatalità demoniaca della carne.
Ed è proprio questo tema – sarà una mia fissazione! – che fa da spia alla più incredibile delle parentele, sia pur marginale e lontana: la parentela con D’Annunzio. Potrò sbagliarmi, ma i germi, e non i più raccomandabili, della Figlia di Jorio son già nella Lupa che la precede di sette anni.
Quell’atmosfera primitiva, quell’umanità elementare, dominata e travolta dall’incoercibilità dell’istinto, quella furiosa passionalità scatenata dalla lussuria e spenta nel sangue, quei mietitori incanagliti dal sole, sotto un cielo di fuoco che incendia le messi e fa divampare i sensi, quello sfondo di superstiziosa religiosità che incupisce fino alla tragedia il pesante sentimento del peccato, quelle litanie e quegli stendardi, le filastrocche e le canzoni, i proverbi e le sentenze popolari, perfino alcune analogie per contrario dei personaggi, sono comuni alle due opere tanto diverse.
Una tenue vena di decadentismo scorre nel discorso di Verga come una tumultuosa corrente realistica gorgoglia in D’Annunzio. Soltanto il realismo impersonale dell’una è quello di Vita dei campi e quello dell’altra è il realismo ferino delle Novelle della Pescara.
Lo spettacolo, assai bello, di Zeffirelli, autore anche delle scene, è caldo, mosso, teatralmente pittoresco e un tantino – non nuoce – operistico.
L’acclamatissima interpretazione della Magnani, attesa, estroversa e spalancata, è, invece, fin troppo interiore, chiusa nel pudore di una vergogna che, nell’isolamento e nella malinconia della propria solitudine, porta in sé, anela quasi, il presentimento della catastrofe. Indimenticabile!
Le sono a fianco, entro a un complesso esemplare, Anna Maria Guarnieri, vera in ogni fibra, e Osvaldo Ruggieri generosamente intenso.
C. Terron