Preferisce vivere appartata piuttosto che accettare il compromesso di certi rapporti sociali fondati sull’ipocrisia del conformismo.
Si traversano cortili, portici d’un buio azzurro, sotto la luna, Palazzo Altieri, dove abita Anna Magnani, è una cittadella in mezzo alla città volgare – cittadella o fortezza o convento -, la barrica il silenzio, pausa non credibile in quest’ora della domenica.
Portineria vuota: un lume sopra l’ascensore rosso e piccolo, che sferraglia fino alla casa della signora. La porta è di noce lucida massiccia, con il bigliettino della guardia notturna infilato tra i battenti.
«Ci saranno, ci devono essere, persone con cui valga la pena, ancora, di parlare… Ma non ci si incontra. Siamo come pianeti che percorrono orbite diverse».
Anna Magnani ha, per fortuna, l’identico sentimento di ripulsa che io ho per quall’aberrante, vessatoria operazione che si chiama «intervista».
Viene il punto, dopo anni di mestiere – scrivere sopra i giornali – che uno non riesce più, fisicamente non può, continuare a domandare agli altri cosa provano, pensano, sognano ecc.
Oggi che nessuno tace più niente di sé, e le gigantografie di monarchi, assassini, cantanti, divi, ribelli ci si avventano addosso in folla quotidiana, che refrigerio uscire dal colloquio, durato un’ora, con, probabilmente, l’unica attrice italiana, avendo il taccuino pulito, libero d’appunti.
La Magnani pensa che raccontare la storia della propria vita non sia da persone educate: e questo autobiografismo, allora, viscerale che ha preso, come morbo, scrittori, poeti, registi? Gli intellettuali facciano come credono: lei non li ama, del resto.
Non è una dichiarazione di principio, ché sarebbe sciocca: tant’è vero che poi chiede cosa fa per esempio, Elsa Morante, se è vero che sta scrivendo per il teatro, e magari scrivesse… «Non mi importa se non scrivono per me, l’importante è che scrivano per il teatro».
«No, io non amo gli intellettuali», dice, «per quella presunzione, per quell’idea che gli intellettuali siano tutte le persone che valga la pena di conoscere. Io le persone che vale la pena di conoscere le trovo dovunque… Oddio, ora magari sempre meno…».
Con coraggio
Isolamento è il male della Magnani: lei l’affronta con coraggio, sta sola piuttosto che con gente che non le piace; come odia lo stare insieme quasi isterico per esempio dei cocktail-parties, non lo capisce, e quindi naviga con questa mirabolante caravella che è la sua casa di Palazzo Altieri, naviga in una solitudine ora aggressiva, ora pietosa (degli altri): proteggendosi con gli oggetti che ha accumulato attorno a sé: e sono quadri di Vespignani, di Guttuso, di De Pisis, ma anche di una Bettina, operaia della Breda, la quale aveva dipinto per lei un ritratto tenero incantato, le mani bionde di sole: più tardi è diventata pittrice a Parigi.
«No, non mi sento soffocare dagli oggetti in quanto ricordi: semmai sono le case, che uno non sopporta, perchè si impregnano del passato: questa per esempio è deliziosa, molto piccola ma bella, al centro di Roma e sembra in campagna, ma vorrei cambiarla, andare veramente in campagna, o avere una casa col giardino».
Che cosa la rende infelice? La volgarità, l’ipocrisia, il servilismo, una certa aria di mafia che è tipica, le sembra, di qualsiasi gruppo, di qualsiasi amalgama sociale italiano.
«Con Strehler in teatro non credo che lavorerò mai. Questione di clan…». In teatro, nelle ultime stagioni, ha fatto La lupa con la regia di Zeffirelli e Medea, con la regia di Menotti.
«Io voglio fare certe cose, in teatro, e trovo dieci, venti persone che me ne vogliono far fare delle altre: così dico no, e non faccio nulla».
Il lusso di dire no, in una compagine umana ormai ridotta al sì automatizzato: no a chi le chiede di scrivere la storia della sua vita – Life per esempio -, no a Carlo Ponti che voleva produrre La ciociara con lei come madre e la Loren come figlia, no a chi le propone di ricalcare, in cinema o in teatro, l’ormai consunto cliché della donna del popolo, meridionale, passionale, scarmigliata.
«Volevo fare Antonio e Cleopatra, allo Stabile di Roma: impossibile, troppi personaggi, pare. Anche se Vito Pandolfi mi stima e fin dal principio ha detto che desiderava la mia partecipazione.
Avevo proposto a un impresario La danza della morte di Strindberg: “Troppo lugubre…”. Lugubre? Attuale! Due che vivono insieme odiandosi!… Il fatto è che non hanno il coraggio di provarmi in parti veramente diverse da quelle che mi hanno fatto diventare la Magnani.
La gente è pigra, non vuole fare sforzi di cervello, di immaginazione. Ma guardatemi, dico, sono una attrice sì o no? Se sono un’attrice, non potete inchiodarmi tutta la vita a un ruolo».
Amore, in cui era diretta da Roberto Rossellini, è forse la sua interpretazione che preferisce: «e che dovrebbe far capire come io sia utilizzabile in quanto donna, non in quanto maschera più o meno folkloristica».
Amore era un film che nessuno s’aspettava – a quel tempo, almeno – da Rossellini: un film in cui la Magnani, almeno nella prima parte (riduzione cinematografica de La voce umana di Cocteau), non disponeva d’altri strumenti che la propria faccia e la propria voce.
Faccia, voce: questi strumenti della Magnani attrice di teatro e di cinema, sono ormai perfetti, sorta di lame balenanti nel pugno di una donna non ordinaria.
Aspetta che siano utilizzati, serbandosi sempre il lusso di dire no. Intanto lei di che sappiamo?
I suoi film sono elencati nell’Annuario del Cinema: I primi, La cieca di Sorrento, Cavalleria, poi la pietra miliare di Roma città aperta, l’incontro con Rossellini, quindi Vulcano, il film anti-Bergman e anti-Rossellini, poi Bellissima di Visconti, La carrozza d’oro, Siamo donne (la Bergman protagonista di un episodio, lei di un altro), poi, altra tappa, l’America, l’Oscar per La rosa tatuata, il connubio con Pasolini, deludente, un unico film, Mamma Roma.
«Ora, dopo cinque anni che continuavo a dire no, ho provato di nuovo con Il segreto di Santa Vittoria, si vedrà…».
Gli uomini italiani
Ma, di lei, che sappiamo? «Bugie», risponde. «Esempio: non sono nata in Africa. In Africa è nato Goffredo Alessandrini…».
Un matrimonio che ancora le pesa, un legame remoto nel tempo, da cui tuttavia non riesce a sentirsi libera. «E’ l’ipocrisia della legge, che rifiuto. Magari uno pensa: la Magnani, una rivoluzionaria, che gli importa di avere le carte burocraticamente in regola? Non mi importa la burocrazia, la odio, ma essere costretti a una ipocrisia collettiva, questo rifiuto».
Ma è vero che avrebbe lavorato gratis in un film diretto da Goffredo Alessandrini, per aiutare l’uomo che è stato suo marito? «Non mi piacciono le storie patetiche».
L’amore… «Qualcosa di bello ho avuto, oggi sto benissimo sola… Gli uomini italiani? Non credo che vogliano altro, da una donna, che il ruolo di governante».
Il figlio Luca ha ventisei anni, studia architettura. Anche, o specialmente, per lui ringhia a difesa della sua storia privata, del suo privato dolore. Pensare, se il vaccino Sabin fosse stato scoperto qualche anno prima…
Luca vive in un piccolo appartamento vicino a quello della madre: «Ma, se Dio vuole, è una creatura molto, molto autonoma: attraverso lui capisco questi giovani che vogliono bruciare tutto. E fanno bene».
Lei, Nannarella, smania ancora.
A. Cambria