Nei film intellettualistici e gelidamente lambiccati di questi anni, un’attrice come Anna Magnani, abituata a recitare per pura forza d’istinto, non riesce a trovare i personaggi e le storie che le si addicono. Inoltre il suo carattere indipendente le impedisce di sottostare alle mille servitù sulle quali oggi viene costruita la fama di una “diva”. Per queste ragioni Nannarella si è ora decisa a tornare alla rivista
«Il cinema mi sembra proprio che abbia preso una brutta strada! Tutte queste distorsioni, tutti questi stiracchiamenti… Il pubblico mica è scemo: uno per uno li puoi anche mettere nell’imbarazzo, ma tutti insieme no! Tutti insieme diventano acutissimi, e se in un film c’è un po’ d’intellettualismo, loro l’annusano subito, loro si ribellano. Ah, Madonna Santa, ma che sono tutte queste sofisticazioni! Perché non si sanno più fare dei personaggi senza tante complicazioni, ma con un po’ pi di terra, dentro, di sangue, di passione!»
La voce di Anna Magnani, quando parla di cinema, ha scoppi di energia grezza, amareggiata, le pupille splendono vivamente dentro le grandi orbite grigie, e il viso, ormai anziano, serba tuttora l’ostinata e pura bellezza dei visi che si sono modellati soprattutto sulla forza interna del carattere.
Tutto in lei, infatti, è «personale» e completamente estraneo alle correnti, alle mode.
Indossa maglietta nera e pantaloni neri, un po’ sformati, Perché gli abiti devono essere prima di tutto alleati dei suoi gesti improvvisi, un po’ selvatici, e allora spalanca le braccia, si spettina, sbadiglia, si snoda, oppure si rannicchia pensosamente in poltrona. Non porta orologio, nè anelli, nè smalto alle unghie, ma ha dita quasi virili fra le quali le sigarette si consumano in fretta.
Sfila dalle babbuccie ornate di pelo due piccoli piedi nudi e li tratta, parlando, come se fossero mani. Ha labbra senza trucco sulle quali possono fiorire esclamazioni inaspettate: «Ah, Tennessee, caro Tennessee Williams! Quanta vera poesia ci ha dentro!», oppure: «Sono una lucertola, io. Ma quand’è che arriva questo sole benedetto? Ho tanta voglia di stendermi su un muro».
Anche la casa, attorno a lei, non segue uno schema, una moda, ma è cresciuta spontaneamente con gli anni, con la carriera stessa: con le sue finestre che guardano le tegole smosse e le cupole arancio di Roma vecchia, con i suoi grossi gatti dalle fulve code volpine che stanno stesi pigramente sui mobili fin quando la padrona non li aizza, coi suoi soprammobili ammassati come per caso, tutti caldamente animati d’estro (giganteschi candelieri d’opale, pistole antiche, tartarughe argentee, ceri, rosari spagnoleschi), con i suoi ritratti, di Leonor Fini, di Tabet, di Bettina, di Vespignani fino a quello, tutto nero e bianco, dipinto a violenti raptus d’ammirazione, che porta la firma di Renato Guttuso; con i suoi premi, infine, allineati sulla mensola del camino, e in mezzo ai quali spicca l’enigmatica statuetta dell’Oscar, con la data del 1955 incisa, e il titolo del film che le dette gloria mondiale: La rosa tatuata.
Il film che le dette gloria mondiale: fin da allora, infatti, Tennessee Williams cominciò a proclamare che nessuna faccia di donna lo ispirava quanto quella di Anna Magnani; Pier Paolo Pasolini sognò d’averla a protagonista d’un suo film e più tardi scrisse appositamente per lei il soggetto di Mamma Roma, e altri partner di grosso calibro, come Marlon Brando, nonostante fosse geloso di lei durante la lavorazione di Pelle di serpente, dichiarò ai giornalisti di adorarla: «Oh, I adore her! She is such an extraordinary actress!» («Oh, in realtà l’adoro! È un attrice straordinaria».)
Eppure cos’è mai la fama oggi, per una donna come Anna Magnani?
I suoi grandi occhi cinerei splendono amaramente, le dita accendono in fretta un’altra sigaretta, nel suo appartamento c’è silenzio.
«Cara, che cosa vuol che sia? Oggi è diventato così difficile per me… Sono un’attrice impegnativa, i registi hanno paura, i produttori pure. Io non posso permettermi il lusso di sbagliare un film; io, in un film, rischio sempre tutto. Il problema è sempre quello di trovare una parte che mi corrisponda perfettamente, che mi stia addosso come un vestito cucito per me. Ma dove sono queste parti, oggi? Dovevo fare un film con Rossellini, ma – chissà come – è andato in fumo. Ora sto per girare un film con Autant Lara, Le Magot de Josepha. È la storia d’una italiana che vive in Francia con un suo commercio avviato e che fa un po’ d’imbrogli: una parte che sta fra il drammatico e il comico e che mi corrisponde.
Ma nello stesso tempo sono stanca d’esser legata al solito cliché, e vorrei proprio rinnovarmi. Fare sempre questo tipo di popolana angosciata, dagli istinti violenti, primitivi, ora comincia a pesarmi, e vorrei uscirne. Mi sento tante altre cose, dentro, tante nuove corde da toccare, ma d’altro canto con un cinema come s’è andato trasformando quello di oggi – e a dir la verità non ci capisco nulla in questa nouvelle vague – non vedo bene la maniera di risolvere il problema».
È strano, ma la polemica cinematografica, in Anna Magnani, non ha toni aggressivi, ma colpisce semmai per una sua forza delusa, per una lucidità che non è ribellione, ma piuttosto consapevolezza, constatazione amareggiata.
«La verità è che sono stanca d’impuntarmi, di combattere. Mi sono impuntata anche troppo, nella vita.»
Come può, infatti, un’attrice del suo temperamento e della sua formazione, inserirsi facilmente nel panorama cinematografico quale si è andato configurando in questi ultimi anni?
Il suo impeto popolaresco, di donna legata ai moduli del neorealismo del dopoguerra, non può che essere tradito da un cinema di fredde rivoluzioni formali (come quello di Resnais o di Godard, per intenderci).
La sua fede oscura, sensuale, nelle cose della vita, mal s’attaglia alla problematica odierna della noia, della saturazione di tutto.
La sua faccia intensa, drammaticamente segnata, dove le emozioni si specchiano con violenza (basta pensare a quell’episodio della Voce Umana che ebbe a protagonista solo il suo viso e il filo del telefono), non può che sconvolgere la statica eleganza di certe inquadrature di testa.
Il suo stesso metodo di lavoro, che chiede di creare pienamente una situazione, procedendo a grandi bagliori d’istinto, discorda infine con certi metodi nuovi per i quali l’attore è quasi tenuto all’oscuro dei disegni del regista, e si trova ad agire a strappi, come un automa, in seguito a rapide imbeccate.
In questo senso anche la sua ultima esperienza, quella di Mamma Roma, nonostante fosse nata da una vera e amichevole intesa col regista, non è stata molto felice. Pier Paolo Pasolini chiedeva ad Anna Magnani di comprimere il suo impeto, che avrebbe voluto espandersi pienamente, in inquadrature molto brevi: le chiedeva, insomma, «di non scolpire il personaggio col piglio di uno scultore di monumenti equestri, ma piuttosto di cesellarlo come un orefice, dicendo le battute ad una ad una come dei pezzettini d’oro».
Anna, invece, soffriva di dover cominciare una scena dalla metà, o dalla fine, vedendo sovvertito l’ordine delle proprie emozioni; e soprattutto si sentiva tradita nella sua verità d’attrice d’istinto, che non può essere plasmata nè compressa per riuscire a dare il meglio di sé.
«Forzarmi a fare qualcosa che non sento di fare, vuol dire farmi essere non autentica», essa dice. «E infatti io glielo dicevo a Pier Paolo: se io non ho coscienza precisa di quello che stiamo girando, se tu non mi lasci un po’ libera, io non riesco a immedesimarmi col personaggio che tu vuoi, io rimango estranea alla vicenda. Ed ecco, allora, che gli attori che tu hai preso dalla strada e che fai funzionare come robot, diventano più autentici di me, ed io non voglio che questo confronto il pubblico lo faccia. Perché il pubblico mica si lascia ingannare facilmente».
Non ritira mai i premi per non mettersi in mostra
Ma che cosa contano, ormai, le impuntature di un’attrice che cerca ancora «storie di sangue e di terra», nei confronti di un cinema che è diventato quasi creazione esclusiva dei registi-divi, o meglio ancora di inflessibili cervelli d’avanguardia? Un tempo sì che contavano. E infatti Anna Magnani ricorda ancora con nostalgia i litigi, o gli improvvisi scoppi di chiarimento, che la portavano di volta in volta ad accordarsi e a parlare lo stesso linguaggio di Visconti, di Rossellini, di Zampa, di Camerini o di Danny Mann.
Girando Suor Letizia, ad esempio, nel quale doveva descrivere il risvegliarsi carnale d’un sentimento materno nel suo cuore di suora, si ribellò a Camerini che le imponeva di girare un po’ troppo castamente la scena in cui il bimbo avrebbe dovuto strapparle il velo, esclamando: «Toh, anche le suore hanno i capelli!», e lo convinse a lasciarla libera di crearla così come la sentiva. E allora, invece di sedere compostamente di fronte al bambino, se lo prese sulle ginocchia, lo strinse a sé con passione, poi si lasciò buttare per terra, arrivando così allo strappo del velo per una conseguenza trionfante del suo istinto, e non per un atto pensato.
E anche più tardi, quando girò Bellissima, ottenne da Luchino Visconti, di solito così inflessibile e amaro nelle sue imposizioni agli attori, di recitare un lungo monologo improvvisando liberamente le battute, così da potersi sentire autentica proprio nella misura in cui le frasi da dire coincidevano con quelle che avrebbe detto lei stessa.
Oggi, invece, un certo cinema d’avanguardia risulta talmente dosato a freddo dalla mente del regista, talmente astratto e ideologico, da togliere ad Anna Magnani, fin dal principio, quella meravigliosa forza istintiva che le faceva esclamare: «Ah, io quando trovo una parte che mi corrisponde, mi rianimo subito, mi sento viva!», e da farla quasi sentire goffa e sorpassata in un mondo di «intellettuali troppo complicati e in un certo senso fasulli».
La sua voce, adesso, ha di nuovo uno scoppio d’energia amareggiata: «La verità è che dovrei diventare un rinoceronte come gli altri, ma non mi riesce, ah, santo Dio, non mi riesce davvero! Tante mattine mi sveglio e mi dico: Anna, tu dovresti piegarti di più, Anna, tu dovresti essere più cinica, più ammanigliata, più furba, più calcolatrice. Ma tanto è inutile che me lo dica. Un rinoceronte non riuscirò mai ad esserlo, ed ecco, allora, che tutto quello che succede nel mondo, e non soltanto nel mondo del cinema, è destinato a ferirmi».
Questo, in realtà, è uno degli aspetti più veri del temperamento di Anna Magnani: la sua dirittura d’animale d’istinto, la sua schiettezza popolana che è incapace di venire a compromessi, la fedeltà irriducibile a se stessa. Il suo personaggio cinematografico, infatti, a furia di disdegnare le concessioni, le azioni calcolate, non può essere un mito stabile che gli agenti pubblicitari offronon alla massa come un prodotto ben manipolato, ma corre continuamente sul filo della dimenticanza o dell’amore.
Essa, ad esempio, rifiuta di far circolare il suo nome presenziando ai festival, Perché una gran tristezza la prende, ogni volta, «a guardare questo squallido spettacolo di gente che si mette in mostra, di intrighi che non si vedono ma che si annusano nell’aria, di affari da mercato».
Riceve premi importanti ma rifiuta d’andarli a ritirare di persona, «Perché a me, andare a far la passerella davanti a un pubblico elegante, mi disgusta, cosa vuol che le dica».
E così adesso racconta d’aver guardato sbalordita un’amica che, al suo rifiuto d’andare a ritirare il premio a Saint Vincent, cercava di convincerla: «Ma Anna, ti rendi conto che ogni grolla è almeno due chili d’oro!», e d’aver riattaccato il telefono, credendo che si trattasse d’uno scherzo, quel mattina all’alba in cui le fu annunciata l’assegnazione dell’Oscar.
Riceve inviti dal Gran Ciambellano di Corte d’Inghilterra, per essere presentata ufficialmente alla regina Elisabetta, ma non esita a rispondere di no, nonostante che Elisabetta «sia tanto simpatica, e bravina, e piccinina e graziosina», Perché l’idea di travestirsi da marionetta che fa la reverenza alla regina le dà la sensazione del grottesco.
S’arrabbia se la stampa divulga la leggenda ovvia e mielata del suo «grande cuore di mamma» ferito dalla malattia che colpì il figlio, da bambino, e che lo ha reso meno valido, Perché la sua fierezza di carattere le fa guardare con sospetto a tutte le speculazioni sul patetico, e la sua schiettezza popolana si sente colpita nella solidarietà «verso tutte le altre mamme che hanno avuto disgrazie molto più grosse della mia, ma senza i soldi per curare i loro figli».
“Senza un po’ di calore intorno, mi smarrisco”
È talmente incapace di gesti pubblicitari che finisce per provare ammirazione verso tutte quelle dive che accettano di trasformarsi nelle impiegate della loro stessa notorietà.
È capace, infine, di opporre per anni un rifiuto anche al progetto più attraente, solo Perché le sembra incompatibile con la sua integrità d’attrice che può essere vera solo quando «sente» sul serio una parte, e fu così che perse di proposito la bella occasione di interpretare La ciociara, sotto la direzione di De Sica, solo perché «invece di darmi una figlietta giovane e inesperta, una specie d’agnellino, volevano darmi Sofia Loren». («E questo non Perché volessi oppormi a Sofia, ma solo Perché mi sembrava troppo erompente e adulta per interpretare la bambina descritta da Moravia. Anzi, dopo fui proprio io che dissi a De Sica: Vittorio, Perché non fai recitare la parte della madre a Sofia Loren? E lui infatti, zitto zitto, acchiappò subito l’idea»).
«Ma tutto questo si paga, sa, eccome se si paga!», ora insiste duramente, quasi nascondendo il viso fra le braccia levate. «Non poter essere rinoceronte, al giorno d’oggi, è una gran brutta condanna!».
È strano, ma adesso quel che colpisce in questa attrice sulla quale pesa la leggenda d’un carattere allegro, irruente, passionale, incontrollato, è quasi il suo contrario: è cioè un’aria chiusa, da animale ferito che reagisce selvaticamente e che benché rida, parli, stringa fra le braccia uno dei suoi gatti volpini, commenti vivacemente Tennessee, Burt Lancaster o Marlon Brando, non riesce a smentire mai la vitalità delusa che le splende nell’occhio, e l’amara solitudine annidata nelle sue orbite grigie.
Ad essere personaggio autentico, infatti, e per di più legato a un istinto popolaresco che facilmente sanguina e si ribella, dev’essere duro navigare nelle acque ambigue (ora troppo commerciali, ora troppo intellettualistiche) dell’industria cinematografica attuale.
«È molto duro, sa! Dio solo sa se è duro!», essa ripete, e infatti ciò che le ha dato più dolore, soprattutto in questi ultimi anni, è la corsa folle e implacabile degli uomini verso la loro piccola meta («il cannibalismo», lo chiama), che esclude automaticamente la possibilità di un rapporto più schietto, più umano. È prevalere dell’interesse sull’amicizia che lei non esita a chiamare «santa», perché gli amici sono la famiglia che uno si sceglie davvero, «e perciò vedere che un amico è incapace di fare un piccolo gesto che non abbia il suo tornaconto, mi ferisce nel profondo».
È la rivalità aumentata, con tutte le meschinità e le invidie spicciole che lei dichiara di non aver mai provato: «Anzi, mi ricordo che quand’ero giovanissima e recitavo in compagnia con Vera Vergani in una commedia di Nicodemi, quasi facevo un buco nelle quinte a furia di guardarla, tanto ero incantata del suo chic, del suo vestito bianco e dello scialle, della sua soavità e della finezza nel parlare».
Ed è soprattutto una certa inafferrabilità delle cose, delle persone che ora non sa neanche spiegare tanto bene («Sarà l’incomunicabilità, l’affanno della vita, il troppo lavoro, ma certo qualcosa al giorno d’oggi non funziona come prima»), e che per lei, donna d’istinto, si traduce nella sensazione d’una mancanza di calore, d’una diffidenza, d’una ostilità che le impedisce di sbocciare, nella vita e nel lavoro, in tutta la pienezza della sua vitalità, dei suoi impulsi.
«Perché la verità, nel caso mio, è proprio questa: io senza il calore intorno non funziono, mi smarrisco. Per me, sentirmi circondata da un ambiente freddo, di cervelli e basta, è come dover andare, disarmata, davanti a un dinosauro. Per questa ragione ho deciso, fra pochi mesi, di fare di nuovo la rivista. Perché la rivista è piena di divertimento, di cambiamenti di umore, e il personaggio è libero, si muove quanto vuole, fa tante cose in una volta, e nessuno gli conta i passi, o gli interrompe le battute. E poi, nella rivista, io sento il calore del pubblico che mi ama moltissimo, e quest’amore mi smuove dentro qualcosa che altrimenti rimarrebbe chiuso, e mi mette addosso la “ruzza”. Sì, per me sarà un bel bagno di libertà, finalmente, sarà proprio una gran festa!».
G. Livi
Foto © Rastellini