SULLE SCENE LA RIVOLTA DELLA PASSIONE
Come attrice di prosa Anna Magnani aveva le carte perfettamente in regola, contrariamente a quanto possa pensare chi coltiva una fede populistica ed istintuale.
Del resto basta sentirla recitare, cogliere la perfezione di certi toni bassi, la forza di certi soffiati, per intuire, anche attraverso la durezza della recitazione dialettale, l’esperienza approfondita della scuola.
La Magnani infatti frequenta la scuola di recitazione “Eleonora Duse” presso l’Accademia di Santa Cecilia, che di lì a pochi anni si sarebbe trasformata nell’Accademia Nazionale d’arte drammatica.
A vent’anni è nella compagnia Niccodemi, con la Vergani e Cimara, poi è con Gandusio. Subito dopo fa i primi passi nella rivista con Pina Renzi e i De Rege, per tornare alla prosa con Betrone e di nuovo alla rivista con Lucy d’Albert, Franco Coop e Ermanno Roveri.
Sono i tempi della fortunatissima rivista di Galdieri: “Disse una volta un biglietto da mille”, cui si sarebbero aggiunti altri successi nelle riviste con Totò, che segnano un momento molto importante nella vita artistica della Magnani: quello in cui la lingua accademica del teatro cede definitivamente, senza peraltro scomparire, alla aggressività della lingua popolare.
Ma contemporaneamente appare, in piena guerra, in testi classici americani come “Anna Christie” di O’Neill, in quella specie di off-off autorizzato che era il teatro delle Arti di Anton Giulio Bragaglia, sotto il cui patronato si rappresentava, e spesso si contrabbandava, tutto ciò che era possibile sottrarre alle forbici di una censura nevrastenica, a volte misteriosamente permissiva, a volte incredibilmente permalosa.
Chi ha conosciuto Bragaglia e la Magnani, due irregolari con le parte più che in regola di fronte alla cultura ufficiale, due personaggi fortemente caratterizzati, in una parola due prepotenti, può immaginare a quali vertici salivano gli scontri tra il regista e l’attrice. Ma spesso ciò dava alla rappresentazione un mordente per allora inusitato.
Voglio dire, insomma, che tra il teatro in lingua e quello in dialetto la Magnani dibatteva di persona un conflitto che investiva già più o meno compresso in tutta la cultura italiana, e che rappresentava sulla scena l’urto tra una società accademica, di natura artificiosa e paternalistica, tutta costruita su modelli prefabbricati, e il materiale ancora magmatico ma esplosivo, di quella che sarebbe stata la vigorosa spinta artistica dell’immediato dopoguerra.
L’Italia pareva adottare allora, come liberazione da una lingua imposta per preoccupazioni unitarie gli accenti popolareschi del centrosud; ecco perchè ritengo importante, nella carriera della Magnani, la sua collaborazione con Totò; ed ecco perchè assieme a Eduardo De Filippo la Magnani è una delle voci più autorevoli della nuova scena italiana, tanto autorevole da imporre un gusto, addirittura una produzione.
Era lei, insomma, a determinare certi spettacoli, a mettere in fase autori e registi. E il suo discorso squillava anche in testi meno impegnativi, che tuttavia vivevano rigogliosamente nel clima alacre, eccitato, assetato di libertà, degli anni caotici, ispirati, dolenti e felici del dopoguerra.
Ripensiamo soprattutto a “Cantachiaro” e a “Soffia so'” uno dei primi successi della furtunata coppia Garinei e Giovannini.
Sono gli anni in cui la personalità della Magnani esplode con una risonanza internazionale nel cinema; a tal punto che quando torna al teatro, in testi concepiti in tutt’altro clima, come “Maya” di Gantillon, non si può non riconoscere il distacco tra la violenza espressiva della protagonista e l’aura convenzione del testo.
A codesta impegnata violenza faceva da strano contrappeso una dizione perfetta, toni da attrice tragica di rilievo, che tuttavia sbandavano come decorazioni marginali dalla corda tesa del personaggio Magnani.
Persino in un testo a lei certamente congeniale, come “La lupa” di Verga, che fu con “Medea” di Anouilh una delle sue ultime interpretazioni teatrali, la Magnani non dette la misura la rivoluzionaria trasformaintera (ndr errore nel testo originale) delle sue nuove, immense possibilità; è persino commovente, in una attrice giudicata superficialmente come una sorta di ciclone, il rispetto, quasi il timore di un grande come Verga, che pure s’era mosso nella medesima direzione con cui lei aveva conquistato la gloria.
La prendevano scrupoli incredibili, timidezze in lei inconsuete, che rivelavano angoli forse inesplorati della sua sensibilità; stranamente, in una sorta di regressione infantile, temeva la propria ombra. Amava tanto l’autore, che non le restava tutto l’amore necessario per il personaggio.
La verità, e anche in questo la Magnani è un personaggio sintomatico della nostra cultura teatrale, è che la sua personalità era troppo spiccata, la sua vocazione troppo univoca per presentarsi ad interpretazioni che non fossero innanzitutto creazioni.
Avrebbe avuto bisogno di un grande autore di teatro, che l’avesse amata come l’aveva amata il Rossellini di “Roma città aperta“. Ma in quei tempi il teatro italiano, travolto dal-zione (ndr errore nel testo originale) del Paese, segnava il passo se non camminava all’indietro. Eppure si vide attraverso la riproduzione cinematografica del dramma “Rosa Tatuata” di Tennessee Williams che cosa avrebbe potuto dare la Magnani ad un autore di teatro suo contemporaneo.
Il teatro resta dunque la sua patente di alta nobiltà, ed è forse questo che dà la forza dello stile (altro che improvvisazione!) alle sue creazioni dello schermo.
Umanamente è stato detto tutto della Magnani, del suo carattere, delle sue scelte, delle sue rivolte, dei dolori cui il destino l’ha sottoposta. Ma forse non è stato detto che, come avviene per i grandissimi attori, la sua vita era infine un riflesso del palcoscenico o dello schermo, dove si consumava la sua vera esistenza, quella dello spirito.
Il resto era una malinconia fonda che credeva di placarsi con l’amore e invece si placava solo con quell’amore più vasto ed assoluto che era il suo lavoro, col quale riusciva veramente a comunicare con tutti, poveri e ricchi, intellettuali e uomini della strada.
E infatti, sbaragliata nel dopoguerra la schiera delle amanti sublimi, la Magnani seppe esprimere l’amore a tutti i livelli, di madre e di moglie, di compagna, allegra, violenta, tragica, tenera, l’amore di una creatura umana, che non sa lasciare altro segno del suo involontario pellegrinaggio su questa terra.
G. Prosperi
(dalle Biblioteche Riunite “Civica Ursino-Recupero”)