Sfuggiva alla folla, riceveva gli amici in camicia da notte. E mentre le altre dive gareggiavano per attirare i fotografi, la prima italiana a vincere l’Oscar snobbava la Mostra di Venezia
A quell’ora, erano le nove e mezzo di sera, una bambola chiamata Sue Lyon stava entrando nel Palazzo del Cinema: a guardarsi ufficialmente in un film che secondo i suoi agenti pubblicitari non ha mai visto nemmeno di nascosto. «Lolita è proibito ai minori di 18 anni, sapete, e lei ne ha appena 16». «Ma via! Se l’ha interpretato…». «Qui sta il bello. La legge è la legge».
Imperturbabile come quando le avevo chiesto se tanta celebrità le facesse paura e lei aveva risposto ma no, che domanda, perchè avrebbe dovuto?
Fredda come un automa che sa quel che vuole e lo avrà, vestita di bianco come una cresimanda o una sposa dell’anima netta, avanzava sotto i riflettori e per 30 secondi (non uno di più non uno di meno perchè così era stato deciso) si fermava a offrire lo spettacolo della sua carne soda, disinfettata, virginea, dei suoi riccioli gialli, bruciati, dei suoi occhioni senza mistero color fiordaliso, di una generazione e di un mondo fatti apposta per adeguarsi a un festival.
Lei, invece, Anna Magnani, questa donna di una generazione e di un mondo tanto lontani, sempre carica di paure, di incertezze, di bizze, di misteri grandi e piccini, sempre pronta ad accendersi come un fiammifero, a piangere, a ridere, a cambiare opinione, se ne stava raggomitolata su un letto di una camera d’albergo a Venezia, nella penombra di un lume posato sul comodino, e i capelli neri erano più spettinati i sempre, il volto olivastro, un po’ stanco, appariva più consunto di sempre, sul corpo magro non portava che una camicia da notte a fiori rossi, americana, brutta che non vi dico, «ma la porto lo stesso perchè me l’ha regalata la mia segretaria di New York e mi sembrerebbe crudele gettarla in fondo a un cassetto».
«VIA», DISSI, «VENGA AL LIDO»
«Via», dissi «venga al Lido. La aspettano». «Nemmeno per sogno», rispose. «Non vuole vedere Sue Lyon?», insistetti. «E chi è?».
Glielo raccontai: con l’incontro che avevo avuto qualche ora prima «Ahi», commentò. «Ho un dolorino in fondo alla schiena». «E poi vuole interpretare la vita di Marilyn Monroe: sostiene che pur così giovane le somiglia moltissimo».
Una risata cupa, dolorosa, amarissima le usci allora di fondo alla gola: subito spegnendosi in una rabbiosa tristezza.
«Povera Marilyn. Ricordo il giorno che la conobbi, per non so quale premio. Era giunta con il consueto ritardo, 40 minuti mi pare o mezz’ora, ed era tutta sconvolta per il timore d’esser mal giudicata. Girava intorno quegli occhi umidi, da cane senza padrone, ma abituato ai calci e alla frusta, e ripeteva con un filino di voce: “I’m sorry, miss Magnani, I am sorry. La prego, miss Magnani, non si arrabbiata con me”. “Ma non lo sono, miss Monroe”. “Davvero? Oh, davvero?”
Era un fiore di creatura: tutta morbida e bianca, senza nemmeno una stecca per tenersi dritta, compatta come un albero giovane, profumata come una gardenia sul ramo: quando seppi che l’avevano ammazzata sembrò anche a me di morire un pochino. Telefonavo a tutti come una folle, piangevo, persi le staffe quando non so quale imbecille mi disse che sì, era una perdita grave per il cinema. Che cinema e non cinema, hanno ammazzato una creatura, dicevo, una donna di 36 anni, e voi mi parlate di cinema».
Ammazzata, veramente, è un po’ troppo. Suicidata, direi.
«Nossignora, ammazzata. Ammazzata dalla medesima gente che si aggira in questi giorni per il festival, dalle medesime cose di cui si nutrono i festival. Se sapesse come lo odio, quel mondo. Per questo non lo frequento. Sono venuta fin qua ma senza arrivare sino al Lido, perchè i produttori di Mamma Roma mi hanno pregata, supplicata, convinta.
Ma guardi, sono scesa stamani dal treno, mi sono messa a letto e non ne sono più uscita. Gli amici telefonano: “Anna, vieni. Anna, perchè non vieni?“. Ma io ho deciso: i piedi laggiù non li poso che qualche ora domani, quando c’è il film. “E perchè dovrei venire?“, rispondo, “per stare all’Excelsior?!” Mi sembra di vederli, tutti quanti, mentre si aggirano dentro l’Excelsior, disperatamente augurandosi di esser notati, fotografati, intervistati, e quando si vedono si abbracciano, si palpeggiano, si baciano, “caro, tesoro, anche tu qui? Oh, come sono felice, ti adoro!“
Si adorano tutti, e poi, se potessero, si infilerebbero un coltello nel cuore.
Proprio come diceva la povera Marilyn: “Mi creda miss Magnani, mi creda: in questo ambiente non si trova un amico. Magari una crede di averlo trovato, si sfoga un pochino con lui per sentirsi un po’ meno sola, e il giorno dopo trova tutto quello che ha detto sopra un giornale: e allora si sente più sola che mai, con un gran desiderio addosso di morire. I nemici qui non si vedono, miss Magnani, ma sono tanti, mi creda. Proprio come quelle bestioline… come si chiamano quelle bestioline fatte come le formiche che mangiano tutto, miss Magnani?“. “Termiti, miss Monroe“. “Ecco… proprio come le tre…tra… tramiti,miss Magnani. Invece io avrai un tale bisogno d’essere amata, miss Magnani. Lei no, miss Magnani?“. “Anch’io anch’io… ma un tempo“.
Avevo un tale bisogno d’essere amata che facevo di tutto per farmi amare e credo d’esser diventata attrice per questo: per essere amata. Ora però me ne infischio: gli imbecilli sono tanti che la pietà per loro mi fa sghignazzare, uccide in me ogni sete d’amore.
Questo mondo spietato, volgare, senza pietà, questa mania di commercializzare ogni cosa, ricattare su tutto.
Senta questa: tempo fa leggo un articolo sopra di me, davvero infame, schifoso. Avevano fatto si figuri, la lista di tutti i miei uomini: roba da pazzi.
Decido di dare querela e il padrone di quel giornale mi scrive: “Vorrei consigliarle di non farlo, carissima; perchè in tal modo la macchia d’olio si allarga“.
Non è così che hanno ammazzato Marilyn Monroe? Senza parlare delle rivalità, le bugie: Dio, come faccio a non ribellarmi a certe faccende?».
Ebbe un’altra risata.
«Naturalmente non è tutto fosco: c’è anche il lato divertente in questo mondo, o grottesco. Oggi m’hanno raccontato, per esempio, che due telecronisti sono quasi venuti alle mani per disputarsi l’altissimo onore di intervistare la Magnani alla tv: roba da pazzi. Poi questa bambina che vuole interpretare la Monroe. Roba da pazzi.
Mi fa venire in mente, immagini cosa: l’idea di fare un film sopra il festival. Me lo scrive un soggetto sul festival? Via su, mi racconti: quest’anno, all’inaugurazione, chi c’era? La Lollo o la Loren?».
«Gina Lollobrigida. Sophia Loren ci sarà alla chiusura, mi dicono, e non possono incontrarsi: capisce». «Eh, eh! Già, già. E che faceva la Lollo?»
«Portava 600 milioni di smeraldi: gli stessi che indossa in Venere imperiale. Però non erano suoi, a eccezione dell’anello. Glieli aveva prestati un gioielliere di Roma. Così tutte le volte che usciva era circondata da non so quanti poliziotti in borghese, la man odestra pronta a estrarre la rivoltella».
«Già, già. L’ho visto alla televisione. Eh, eh, già: l’ho vista. Bellina, simpatica, sempre. Sempre. E brava eh? Bravissima, sempre. Bisognava vedere come sapeva dosare le parole, i silenzi: con quel telecronista che la stuzzicava per farle dire quella cosa dei soldi “Lo diciamo, Gina? Eh? Lo diciamo?“. “Ma no“. “Allora lo dico io: la Lollo ha raccolto 20 milioni per i terremotati di Napoli e 5 milioni li ha messi lei“. Simpatica. Simpatica e brava. E degli altri, mi dica: chi c’era? Sa, io sono curiosa. E questo film bisogna proprio farlo».
C’erano tanti nuovi registi, le dissi. Uno poi così giovane che quando affermava: «Ricordo un film che mi piacque dieci anni fa», rivelava d’essere davvero un prodigio. Dieci anni fa infatti aveva soltanto 11 anni, Bertolucci, questo è il suo nome, era anche poeta e premiato a Viareggio: Dio che portento. Poi c’era il cugino o il nipote, non so, di Luchino Visconti che debuttava appunto con il suo vero nome: Prandino Visconti, assai bravo: davvero.
Ai loro film, che si chiamano Opera Prima, assisteva sempre un mucchio di gente: i registi quest’anno andavano di moda assai più degli attori. Tra gli attori c’erano Renato Salvatori e Annie Girardot.
Anche lui vorrebbe fare il regista, però va assolto per quel suo modo di dire a tutti: “Sapete, la mia bambina è nata che quattro chili e 900?“, malgrado gli altri risondano “Ah si?“, senza provare nemmeno un po’ di commozione.
NON SONO QUESTE…
«Non sono queste, purtroppo, le notizie che interessano un festival. Tra le attrici c’era Alida Valli; magra magra, chiusa in quella bellezza un po’ malinconica.
Con la sua aria così poco italiana, da Mitteleuropa dice lei, non le offrono mai di fare un film in Italia, e il film che presentava al festival era argentino. Perchè i giornali pubblicassero la notizia che andava a girarlo in Argentina, mesi fa, il suo press agent fu costretto a inventare che essa lasciava l’Italia per sempre».
«Oh, lo so, lo so, cosa vuoi dire», disse Anna Magnani fumando una sigaretta con rabbia.
«Questo film di Pier Paolo Pasolini è l’unico film decente che m’abbiano offerto in questi ultimi anni. Carlo Ponti, per esempio, lo sa cosa mi offrì? Di girare Eulalia Torricelli da Forlì. A qualsiasi prezzo, diceva. Qualsiasi. Dal gran ridere mi venne quasi l’infarto.
E a me va ancora bene: per esempio, devo girar S’agapò, che è una bella vittoria, mi spiego? Lo faccio con Roberto Rossellini e… sei dovuto tornare a Cannossa, Robbé?» (La Magnani aveva girato con Rossellini Roma città aperta, del 1945, e tra loro c’era stata una relazione di quattro anni, ndr).
Ebbe un’altra di quelle tremende risate: questa donna per cui Tennessee Williams ha scritto ben tre commedie e Jerome Robbins (coreografo e regista di teatro, ha diretto un solo film, West Side Story, con il quale ha vinto l’Oscar nel 1962, ndr) vuol montare a Broadway Madre Coraggio, trova gusto soltanto all’idea di rilavorare con Rossellini.
«CHI ME LO FA FARE?»
«Chi me lo fa fare», riprende, «di accettare parti sbagliate? La gloria? Ne ho avuta abbastanza, l’ho pagata abbastanza: il mio sogno è andare a vivere con le mucche e le galline in campagna. Se solo Luca, mio figlio, fosse d’accordo… I soldi? Non farei che pagare più tasse.
La mania di recitare? Sono pigra: non ha idea di come sto bene senza far nulla. Insomma, l’unica volta che m’offrirono un film decente fu quando Alberto Moravia mi chiese di fare La ciociara. Ma la parte della figlia doveva farla la Loren e… via! Averla a fianco come figlia è eccessivo, anche se non sono più una neonata, le pare? Risposi: date la mia parte alla Loren. Mi racconti piuttosto qualche altra cosa sul festival, questo film s’ha da fare.
Ma è vero che Monica Vitti… Pronto? Oh, questo telefono. Si, cari, salite. Sono in camicia da notte, ma cosa vi importa?».
Balzò dal letto, dimentica del dolorino alla schiena, e la camicia a fiori rossi fluttuò intorno al corpo che sullo schermo, chissà perchè, sembra quasi imponente ma in realtà è minuscolo, asciutto. Nè l’idea di farsi vedere anche da altri in camicia da notte sembrava turbarla: insieme al suo cosmico scetticismo, alla rassegnata ironia di se stessa, alla sua ribellione angosciosa per tutto e per tutti, c’è una sorta di curiosa innocenza.
«Avanti, avanti. Venite».
Erano Pasolini, Alfredo Bini, il produttore di Mamma Roma, e un bambino lungo, dagli occhi tristi e l’aspetto selvatico, Ettore Garofalo si chiama, che nel film fa la parte del figlio (l’ultimo suo film, diretto da Ettore Scola, Romanzo di un giovane povero, è del 1995, ndr).
Venivano a prenderla per portarla al Lido: su, via, c’era anche Giuseppe Ungaretti, che, con la scusa della Biennale, era venuto a sostenere Pasolini.
Stasera lo avrebbero portato a mangiare: non voleva venire anche lei con Ungaretti? «Come no, Certamente. Ma al Lido mai; sono timida, lo sapete, scontrosa, quella gente del festival mi incute imbarazzo, comincia a guardarti, a domandarti le cose, a fotografarti, a proposito, che idea ho avuto, Bini, che idea: un film sul festival, vedrai che lei mi scrive il soggetto, una storia cattiva e insieme umoristica, dove tutti ci fanno una gran figuraccia e finiscono male, sai questo mondo che sembra frivolo ma nasconde la morte… Be’, se non lo capite peggio per voi. Ah, come sono contenta di vedere Ungaretti, mi ricordo quando durante la guerra veniva a casa mia a mangiar la polenta e a giocare a scopone, telefonategli che ci troviamo giù al bar, ora via, mi devo vestire. No, no. Niente Lido».
Sicchè eccola con tutti noi a un ristorante dietro piazza San Marco, un bel vestito al posto della camicia da notte, due spille di brillanti sopra la spalla, due iperboliche perle agli orecchi, e quel volto tragico, affilato, attentissimo, che scruta tutti con l’aria di carpire segreti e ora guarda con preoccupazione il ragazzo che ha 16 anni; Pasolini gl ha ordinato un Martini ma secco, molto secco: capito? Mi sedeva di fronte: tra quel signore curvo e bianco che è Giuseppe Ungaretti e quella maschera triste, diffidente eppur tenera che è Pier Paolo Pasolini.
Il ristorante era vuoto, dai canali venivano zaffate di alghe e di melma, dal mare un vento caldo, pesante: io guardavo quel tragico volto affilato e mi cheidevo che donna fosse mai questa (sincera? gigiona? soddisfatta? rassegnata?) che invece di aggirarsi per il Palazzo del Cinema e farsi pubblicità stava nascosta in un ristorante di Venezia e ora faceva un bel test cominciando dal vecchio signore, «per tentar di capirci. E’ un test americano, attenzione perchè è anche un test molto bello: poetico. Va proprio bene per lei, professore. Dunque: c’è un bosco e lei deve entrarci. Come lo vede, professore?»
«Pieno di funghi», rispose Ungaretti. «Come funghi?». «Funghi», insistè lui. «Mangerecci. Porcini». «E va bene. In questo bosco c’è un sentiero. Lei vi si incammina?». «Di certo». «A un certo punto il sentiero è sbarrato da ostacoli. Lei li rimuove?». «Eccome». «Dopo gli ostacoli appare un orso. Lei cosa fa?». «Lo accarezzo». «Poi trova una chiave. Com’è?» «Piccina, nuova. Una di tipo Yale». «Poi un recipiente abbandonato. Com’è?». «Pieno di vino». «Poi dell’acqua. Com’è?». «Un ruscello». «Poi una casa con le finestre chiuse, sbarrate, e una porta aperta. Che fa?». «Giro alla larga, scappo, non c’entro», disse lui con tono deciso.
«Ecco: vedete. Il bosco è la vita, il resto si capisce bene cos’è, quella casa è la morte», disse Anna Magnani. «E lei, come risponde a quel test?», le chiesi. Sorrise, perplessa.
«Il mio bosco è bello. Ci sono alberi gonfi di frutti e di foglie, il sole passa tra i rami accendendo lame di luce. Il sentiero lo percorro, sì, ma per poco. Poi lo abbandono. Può darsi che ci ritorni, ogni tanto, ma non lo seguo. Gli ostacoli non li rimuovo: tento di scavalcarli e mi faccio male. L’orso lo guardo dritto negli occhi, per tentare di dominarlo: pronta a ingaggiare la lotta. Il recipiente è un tegame di coccio, ed è pieno di olio. Il corso d’acqua è un torrente, assai tempestoso. La chiave è vecchia, arrugginita, segreta. Come il mio io. La casa è alta su una collina e mi fa paura. Esito a entrarci ma poi c’entro: ben sapendo che non ci troverò dentro nulla. Lo vuoi questo balocco, ninì?».
Si allungò, premurosa, verso il ragazzo.
Un venditore ambulante era venuto al nostro tavolo e ora caricava un asinello di cencio, con due lampadine al posto degli occhi. L’asinello strabuzzava gli occhi, muoveva la coda, saltava, e il ragazzo che aveva bevuto il Martini secco, molto secco, lo guardava rapito. «Si che lo voglio». «Te lo compro, ninì». «E compralo».
«Cosa ne farai?». brontolò Pasolini. «Lo compri per il gusto di gettarlo, lo so».
Il ragazzo si inarcò: «Ti sbagli proprio, ti sbagli. Ci faccio che lo porto a casa e ci gioco, con gli altri giocattoli. Li tengo sopra l’armadio e, quando non ci gioco, dal letto li guardo».
«Lo sapevo», disse Anna Magnani. «E quando mai te l’ho detto?», disse aggressivo il ragazzo. «Mai, ninì. Ma io lo sapevo lo stesso».
Poi mi guardò d’uno sguardo che voleva dir tante cose: «Sa, ci provo una tal gioia a comprare giocattoli. Luca, mio figlio, li apprezza pochissimo, li ha sempre apprezzati pochissimo».
«E’ grande», lo giustificai. «E’ un uomo, ormai. Ho letto che s’è innamorato della figlia di Marìa Montez e Jean-Pierre Aumont (l’attrice Tina Aumont, ndr)».
«Ora ne ha un’altra», sospirò. «E’ un figlio difficile, molto difficile», sospirò ancora (Luca Magnani era figlio di Massimo Serato; era nato il 23 ottobre 1942, ndr).
«Via, andiamo a dormire. Domani ci aspetta una giornata difficile, una gran giornataccia».
Ci alzammo, così, e per strada la gente si girava a guardarla: «Non è la Magnani?!», dicevano. «Guarda, la Magnani!». Lei, per schernirsi, si chinava a raccogliere gatti e ci si nascondeva dentro la faccia.
«Le bestie, sapete, sono le sole che non vi fanno del male, che meritano affetto, che ve lo restituiscono. Mi ricordo quando giravo Vulcano, in quell’isola che sembrava la luna, quel film fatto solo per dispetto a Stromboli (Stromboli terra di dio, di Roberto Rossellini con Ingrid Bergman, del 1950: la Magnani girò Vulcano per ripicca poichè era stata abbandonata per l’attrice svedese, ndr), mi avevano dato una palata di soldi, purchè lo facessi, che grossa sciocchezza. Avevo un cane che avevo salvato mentre stava per asfissiare in un pozzo. Si chiamava Fido, e un giorno…».
AL RICEVIMENTO
Al ricevimento precedente la serata del film, l’indomani, c’erano più di 200 persone.
Lei arrivò con Ungaretti, tutti quei gioielli addosso sebbene fossero soltanto le due del pomeriggio, e sembrava, anzichè una diva, la nostra mamma quando la vogliamo portare a un ricevimento noioso, o un po’ troppo impegnativo, e lei dice: «Lo sai che detesto certe faccende».
Le tremava sul volto affilato quella timidezza così esasperata, quell’angoscia sempre un po’ misteriosa: sembrava la prima volta che affrontasse una folla.
Quando uno sciocco le chiese: «Vorrei sapere qual è stato il dolore più grosso della sua vita», anzichè aggredirlo lo guardò con stupore. E rispose: «Non mi va di parlarne». Ma la sera mi confidò: «Però lo avrei ammazzato, lo avrei».
La sera era la prima volta che metteva piede all’Excelsior; s’era messa un abito corto e nero, da pranzo, e grondava i soliti gioielli. I capelli erano stati pettinati da un parrucchiere, le labbra erano truccate, e lei appariva fuori posto, infelice.
Oltretutto i fascisti s’erano impegnati, si diceva, a fischiar Mamma Roma e ciò la irritava.
«Sedersi lì, nel recinto d’onore… in più con l’aria di prepararsi a una guerra, recitare la parte di vittime o eroi… e non ha senso, è ridicolo. Nel 1943, quando i palchi del teatro dove facevo la rivista si riempivano di militi della Decima Mas, con le tasche piene di bombe come patate, e io cantavo a gola spiegata “Viva la libertad“, allora sì che aveva un senso. Una volta fecero anche una piccola spedizione punitiva nel mio camerino e mi salvai incorner dicendo: “Che siete venuti per domandarmi l’autografo?”. Con questo non che sia mai stata eroina o abbia mai fatto qualcosa per la patria, intendiamoci. Anzi, quando Luchino Visconti, che è sordo da un orecchio, si nascondeva da me e alzava il volume per ascoltare Radio Londra, crepavo di paura, sudavo. Però, ecco: mi spiego?».
Percorse la strada che porta al Palazzo del Cinema come una chi fanno male le scarpe, entrò lì dentro, tra il lampeggiare dei flash, con l’aria di una cui fa male ogni cosa, soprattutto lo stomaco. Io pensavo alla sicurezza glaciale della piccola Sue Lyon, al mondo che le divideva, poi immaginavo i suoi occhi accesi, curiosi, che vagavano nel buio a cercare idee per un film sopra il festival.
In prima fila c’era Michelangelo Antonioni, c’era Monica Vitti, c’era Guy Madison (attore statunitense noto soprattutto per i film western, ndr), c’era Jack Palance, c’erano le stelline, le stellone, i registi, i mezzi registi, le dame, le mezze dame e, forse anche per questo, lei mi sembrava una milady invitata alla corte di San Giacomo per ricevere omaggio.
Dopo il film, che fu un film controverso, un po’ troppo pieno di parolacce, e lei aveva tutta l’aria d’esserci capitata per eccessivo ottimismo, o per sbaglio, si lasciò trascinare al night club dove ballò il twist con il ragazzo.
L’indomani, alla chetichella, partì.
Seppe a casa che Mamma Roma era stato denunciato all’autorità giudiziara per turpiloquio.
(Il 5 settembre 1962 il giudice istruttore archiviò la denuncia contro il film Mamma Roma, ndr).
di Oriana Fallaci
(Foto di copertina: Evaristo Fusar © Archivi RCS)
Articolo consigliato: Oriana Fallaci, “Mamma Tragica”, 1963.