Aveva 65 anni: la fine ieri pomeriggio, nella clinica dove era stata ricoverata per un tumore – Già affermata attrice nel teatro di prosa e rivista, rinnovò il nostro cinema con la grande interpretazione di “Roma città aperta” – La relazione artistica e umana con Rossellini e le successive incarnazioni del suo costante personaggio, la popolana di Roma, elementare e autentica – Poche ebbero la sua fortuna di nascere dialettali e diventare universali
Il volto più vero del neorealismo
Non fosse stata Anna Magnani l’attrice cinematografica ch’è stata, il mondo dello spettacolo oggi la piangerebbe lo stesso.
Non compete a noi riandare la sua storia d’attrice di prosa (una vocazione intermittente, ma tenace, che tra le molte fruttò le belle prove di Anna Christie, Maya e La lupa) e soprattutto di rivista, dove ella legò il suo nome, subito dopo la Liberazione di Roma, in un clima d’entusiastico sollievo, alla rinascita della satira politica; e chi ebbe veduti i due Cantachiaro e Soffia so’ non può aver dimenticato la carica insolente dei suoi «monologhi», dei suoi «siparietti».
Certo è che il famoso «temperamento» della Magnani (che per altro aveva frequentato scuola di recitazione) sbucò di lì: dal modo affatto realistico e tutto romanesco, spogliato dei mitici lustrini e caricato d’umanità, ond’ella sostenne la parte della «soubrette».
E fu un gran giorno per il nostro cinema che ancora pativa d’immobilità (1941), quello in cui De Sica le affidò, in Teresa Venerdì, appunto la parte della soubrette da strapazzo che si tiene su a grandezzate: figurina che non era la principale della storiella, ma che lo divenne per la saporita plasticazione che ne fece l’attrice.
Ma ci vollero ancora, sulla scia di quel successo, Campo de’ Fiori e L’ultima carrozzella (a fianco di Aldo Fabrizi, partner ideale), perché l’equivoco d’una Magnani tutta da ridere e vociferata si sciogliesse, e la drammaticità latente in lei, non solo detonasse come fece in Roma città aperta di Rossellini (1945), ma divenisse l’emblema di prua di una nuova poetica cinematografica, il neorealismo.
Si ricorderà che fu il caso ad accendere le polveri. Una gravidanza le aveva tolto di sostenere la prima parte in Ossessione di Visconti (neanche a farlo apposta, un altro film miliare); sicché il suo posto fu preso dalla Calamai. Ma quel ch’è fatto, è reso.
La Calamai, a sua volta impedita, non potè farsi trovare in Roma città aperta, che si dischiuse invece alla Magnani.
Così, concorrendo da ogni patte il fortuito, nacque quel capolavoro di «verità ritrovata», e nacque quel capolavoro nel capolavoro che fu Nannina, la generosa popolana del quartiere prenestino che tinge del suo sangue la Roma occupata dai tedeschi: figura di potente e ormai «classica» elementarità, da vincere il paragone con le più rilevate del cinema sovietico di folla.
Ma riuscì tale perché fu servita dall’attrice con impeto viscerale (non diciamo irriflessivo); e ancora oggi, quando si dice «Anna Magnani», che pure nella sua gamma popolaresca fu varia, vigilata e scaltritissima, è impossibile prescindere da quella Nannina uscita così di getto.
Inevitabile che ci fossero state delle repliche: il neorealismo fu battuto e ribattuto mentr’era caldo e poi anche quando cominciava a diventare freddo; e che in ognuna la bravissima attrice si facesse sempre più posto.
Venne il «tutto tondo» dell’Onorevole Angelina di Zampa, dove la favola, benché conficcata nella realtà del dopoguerra, accettava piacevolezze alla «Meo Patacca», e la Magnani saliva a «virtuosa» del cinema vernacolare a tutto vapore, e poi quelli de Il Bandito di Lattuada e di Molti sogni per le strade di Camerini, che sempre meglio rifinirono il prodotto.
Ormai la Magnani, prossima al divorzio artistico e sentimentale dal regista che l’aveva rivelata, meritava una «serata d’onore», e l’ebbe col dittico Amore dello stesso Rossellini, il cui primo pannello, «La voce umana» (dal monologo di Cocteau), resta un esempio di come una donna innamorata possa lasciare il cuore sulla cornetta del telefono; e certo Alberto Lupo, per contraccolpo, l’avrà studiato e ristudiato.
Seguì quel divorzio e con esso una guerra tellurica. A Stromboli di Rossellini, la Magnani, e per lei il regista Dieterle, rispose con Vulcano, contraltare non troppo felice.
Così come a una zona di psicologia turbata appartengono Camicie rosse di Alessandrini e Rosi e lo stesso Carrozza d’oro di Renoir, adattamento da Mérimée, e troppo intellettualisticamente filtrato sulle reminiscenze della commedia dell’arte, perché la Magnani, sbalzata nel Perù del ‘700, vi si trovasse a suo agio.
Ma un anno prima di quel grigio ’53, c’era stato un gran rilancio con Bellissima di Visconti, che ci restituì un’altra indimenticabile «popolana», Maddalena, investita dalla frenesia (che fu un fenomeno sociale di quegli anni) di volere che la sua bamberottola diventasse enfant prodige del cinema.
Fu il film delle «grandi delusioni della piccola gente», e la Magnani vi ritrovò la sua maggior vena, scavandola, dalla rabbia alla tenerezza, con un gioco sopraffino di espressioni che rasentava l’eccesso di bravura.
Intanto il neorealismo, con notevole ritardo rispetto al suo sboccio, entrò a far parte degli uzzoli hollywoodiani: cosicché la Nostra, anche perché il cinema italiano si andava riempiendo di «maggiorate fisiche», accettò l’invito della Paramount, che le fruttò l’Oscar con La rosa tatuata di Daniel Mann (1955) e un più temperato successo in Selvaggio è il vento di Cukor (1957).
In questi due film americani la Magnani era ancor sempre lei, ma in mezzo a circostanze un po’ truccate.
Suor Letizia di Camerini (’56) e molto più Nella città l’inferno di Castellani (’59) festeggiarono il suo ritorno in patria.
Passionale non meno nella vita privata che sullo schermo, carattere spigoloso, visitata da una grande sventura domestica, anche nell’ordine vissuto ella fu l’esatto rovescio della «diva»: le piovvero onori senza numero (oltre all’Oscar, Nastri, Grolle ecc.), ai quali per lo più rispondeva con veementi telegrammi di scusa.
La sua presenza era fra le più caratteristiche che abbia mai avuto il nostro cinema: la scarmigliatura, la risata procellosa, i toni baritonali, il balenio degli occhi piccoli e cerchiati, le parolacce (in questo anticipò i tempi), ma anche i singhiozzi e gli urli della sensibilità ferita, rapivano il pubblico, esercitavano i caricaturisti, tenevano sospesi i critici come davanti a una forza della natura.
Ma insieme con questo aveva una sveltezza arabica della figura che faceva ricordare essere lei nata ad Alessandria d’Egitto da padre italiano.
E la sua grandezza fu anche il suo limite. Perché era attrice «da prendere o lasciare», travolgente, assoluta, tale che il cinema d’oggi, inebriatamente «culturale», difficilmente l’avrebbe potuta piegare alle sue discipline.
Ciò si vide bene nella sua ultima grande sortita di Mamma Roma (’62), dove ella fu bravissima al solito, ma a proprio conto, e rispettosamente aggirata da un Pasolini che non volendo rifare il già fatto (cioè quella compiutissima figura di prostituta-madre), il suo vero film lo fece sul figliolo, il burinello Ettore. Fu chiaro anche ai non critici che Mamma Roma era peritosamente diviso in due film, uno dei quali era lasciato alla Magnani, e che lo stesso rapporto madre – figlio era piuttosto supposto che realizzato.
Va bene che Pasolini è un mite; ma fosse stato anche un leone, sarebbe stato lo stesso.
Attrici così circoscritte raccolte e prorompenti, hanno declini rapidi; e non volendo continuare a insanguinarsi gli artigli si devono rintanare. Alla Magnani è toccata l’amarezza di vedere che i suoi film facevano sempre meno cassetta e ch’ella andava passando dalla milizia alla storia del cinema; di più, ch’era matura per la televisione, dove un suo «trittico» di storie ha lasciato il segno.
E’ il destino di quasi tutte. Ma poche ebbero la sua fortuna di nascere dialettali e diventare universali; e ciò per l’altra e maggior fortuna di essere comparsa nel momento giusto, in uno dei rari momenti autenticamente rivoluzionari e innovatori del corso cinematografico. Il cinema inteso come specchio d’una sanguinosa realtà italiana di cui durano gli effetti, ebbe nome e tono da lei, «Nannarella».
Leo Pestelli
Il cordoglio di Leone “a nome degli italiani”
Roma, 26 settembre.
La morte di Anna Magnani ha suscitato profonda emozione nel pubblico romano, anche al di fuori dal mondo del cinema.
Molte persone sono accorse alla clinica Mater Dei, appena appresa la notìzia dalla radio o dalla tv; fra i primi ad arrivare il sindaco di Roma, Clelio Darida, registi, gente della tv.
Molti i messaggi di cordoglio.
Il presidente della Repubblica, Leone, ha dichiarato: «Del nostro ricco mondo di artisti del teatro e del cinema, Anna Magnani fu una delle più genuine ed illustri figure per vigoria di espressione, per potenza d’interpretazione, che raggiunse il culmine nella coscienza popolare, e per generosa dedizione. Agli italiani la sua figura era cara anche come madre tenerissima che seppe fino alla morte affrontare con tenacia e coraggio una grande sventura familiare. Sono sicuro di interpretare il sentimento degli italiani rendendo omaggio alla sua memoria ed inviando a Luca le più sentite condoglianze».
L’ultimo film in televisione
“1870”, girato per la Rai con Mastroianni: trasmesso ieri sera, poche ore dopo la morte
Una tragica coincidenza ha fatto sì che la proiezione del film 1870, ieri, sul «secondo», sia stata preceduta di qualche ora dalla morte di Anna Magnani.
E così quella che doveva essere una trasmissione in onore dell’attrice malata, quasi un caldo e affettuoso augurio, s’è trasformata in una commemorazione.
1870 è l’ultimo film della Magnani.
Appartiene a quel ciclo di pellicole che per lei aveva ideato e girato il regista Alfredo Giannetti e che aveva segnato lo scorso anno il debutto di «Nannarella» su quel video dal quale s’era sempre tenuta lontana.
E’ nota l’avversione della Magnani, un’avversione durata anni e anni, per la tv. «Io lavoro per il cinema, per il teatro — pare che dicesse — in quella scatola nun me ce vedo… ».
Poi s’era convinta dell’eccezionale possibilità di diffusione del mezzo; era stata colpita dal fatto che la televisione arrivava dappertutto, che era in grado di raggiungere i più sperduti casolari e di raccogliere la platea più vasta e più popolare. Infine aveva accettato, dopo aver letto i copioni di Giannetti, la proposta della Rai.
Vinte le ultime esitazioni, si era dedicata alla nuova esperienza con entusiasmo e con profondo impegno. Ma conservava l’antica diffidenza per la «scatola» ed esprimeva dubbi sulla riuscita dell’operazione. Fu un grosso successo.
Nel primo telefilm, «La sciantosa», la Magnani compariva accanto a Massimo Ranieri. In una parte non più completamente adatta a lei, si difendeva leoninamente. I telespettatori non rammentavano, in una produzione Rai, tanto impeto, tanta grinta.
Ma fu nella seconda pellicola, «1943: un incontro» (partner Salerno) che l’attrice diede il meglio di se stessa: l’aiutò il soggetto che si rifaceva alla Roma della guerra, della fame, della borsa nera, alla Roma oppressa dai nazifascisti e percorsa dai fremiti della Resistenza; si ritrovò nel clima di «Roma città aperta» e disegnò un personaggio indimenticabile di donna ferma, schietta, vibrante di amore e di dignità.
Tra l’altro, specie con «1943: un incontro», dimostrò di aver capito con intelligenza le particolari esigenze del mezzo, non teatro e non cinema: aveva, se si può dire, ulteriormente raffinato la recitazione, ne aveva contenuto talune frange troppo ardenti, l’aveva adattata, scavando in profondo, alla dimensione privata ed intima della migliore tv.
Si disse allora che l’interpretazione di «1943: un incontro» stava alla pari con le sue interpretazioni cinematografiche più celebrate. E’ vero, lo confermiamo: con la speranza che prima o poi il film venga replicato.
Nel terzo pezzo della rassegna, «L’automobile», con Caprioli, la Magnani sfoggiò doti straordinarie di caratterista, tra il buffo e il melanconico. Si attese invano il quarto film, 1870 (che doveva essere il capofila): 1870 non fu assegnato al video, ma ai circuiti del cinema dove, isolato e non nella sua sede, ebbe limitata fortuna con il titolo di «Correva l’anno di grazia 1870».
Si tratta, è risaputo, di un drammatico e patetico bozzetto risorgimentale dove non mancano acute annotazioni in mezzo a situazioni d’effetto tradizionale. Nel ciclo «1943: un incontro» lo sopravvanza nettamente.
Tuttavia 1870 ha un merito: dà modo alla Magnani, che ha per compagno Marcello Mastroianni, di far vivere con rabbia, dolore e prepotenza una figura di donna come piaceva a lei.
Si sa — dalle poche indiscrezioni che trapelavano dalla clinica — che ci teneva a vederlo sul piccolo schermo (al quale s’era ormai arresa ma anche affezionata e al quale aveva la coscienza d’avere portato un contributo notevole).
Non ha fatto in tempo a vederla, questa sua Teresa di 1870.
L’hanno vista per lei i telespettatori… milioni e milioni di telespettatori da un capo all’altro dell’Italia che ieri sera l’avevano lì davanti, in quel ruolo «suo» di popolana colpita e segnata dalle traversie, generosa e coraggiosa, violenta e tenera, scontrosa e appassionata piena di amarezza…
Sul video, ieri sera, Anna Magnani è apparsa cosi come desiderava essere ricordata.
U. Buzzolan