6 maggio, 1953
Tutti questi ultimi giorni ho un po’ trascurato il mio mestiere di giornalista per occuparmi soltanto di cura d’anime: quella, nella fattispecie, di Nannarella Magnani, la quale ha sconvolto Nuova York quasi nella stessa misura in cui Nuova York ha sconvolto lei, e cioè a dire moltissimo.
Non ero andato al piroscafo, quando arrivò. Sapevo che ci sarebbero stati oltre trecento fra giornalisti e reporters, e non volevo confondermi in mezzo a quella folla affaccendato, indiscreta e vociferosa. Sapevo anche che in quel pericoloso frangente essa avrebbe avuto al suo fianco dei buoni consiglieri come Renzino Avanzo e Natalia Murray, i quali rendevano superflue le mie prestazioni.
Nannarella d’altronde se la cavò benissimo giovandosi, più che del suo inglese piuttosto scarsino, delle sue qualità di grande attrice. A cavallo sul parapetto della nave, sembrava che dell’America lei fosse buona cliente sin dai tempi di Cristoforo Colombo. E rispose a tutto e a tutti, compresi coloro che le ponevano le domande più sciocche a proposito di Rossellini e della Bergman, con una cortesia e un’allegria che dissimulavano alla perfezione la sua sbigottita paura dinanzi alla schieramento di grattacieli che le si paravano davanti agli occhi.
Paura dell’ascensore
Ma appena fu in albergo si mise a piangere e fu con la voce rotta dai singhiozzi che mi chiamò al telefono: «Non me lascia’… Non me lascia’… – rantolava nel ricevitore – Co ‘st’ascensori che se chiudono da soli…». Accorsi in tassì, domandandomi come mai l’avessero lasciata con quegli ascensori che si chiudono da soli.
Il salotto di Nannarella rigurgitava di almeno una cinquantina di persone che facevano risacca davanti alla porta della camera dove lei, disfatta, giaceva sul letto con un gran cartello applicato sulla camicetta, che diceva: «Do not disturb».
Mi buttò le braccia al collo come un naufrago le butta intorno a un salvagente, e con aria sconvolta mi raccontò la storia dell’ascensore che, quando lei c’era entrata al pian terreno dell’albergo, s’era sprangato automaticamente, senza che nessuno azionasse il bottone, e per qualche minuto lei era rimasta lì dentro, tagliata da tutti gli altri, e s’era sentita morire di spavento.
Le spiegai che tutti gli ascensori di Nuova York, o almeno la maggior parte, sono azionati a quel modo, Nannarella mi guardò con aria sorpresa e costernata. «E perché? – disse – Hanno paura de rimetterci de dignità ad accettare un po’ di collaborazione dell’uomo?».
Si lavò la faccia, non si pettinò i capelli e, col suo maglione nero, si ripresentò in salotto, dove dieci, venti, trenta lampi al magnesio scattarono e una mitraglia di domande tornò a prenderla d’infilata.
Nannarella rispose a tutte le domande senza scomporsi: ora gaia, ora patetica, ora umile, ora provocante, ora ridendo, ora commovendosi. Ogni tanto mi mormorava all’orecchio: «…sin’ammazzalli, so’ peggio der confessore… Proprio tutto vonno sape’…».
Poi quando fu di nuovo sola ricominciò a piangere e a supplicarci di non lasciarla. L’allergia di Nannarella a Nuova York non è durata che poche ore.
Alla sera di quello stesso giorno, quando si presentò alla party data in suo onore da Shirley Booth, che è oggi di gran lunga la più grande attrice d’America, essa aveva già superato d’un balzo i secoli di progresso che separano la nostra, pastorale e artigiana, dalla civiltà meccanica del Nuovo Continente; e quando arrivò a quel quattordicesimo piano col suo seguito volle che tutti uscissero dall’ascensore per restarci dentro da sola, lasciare che si richiudesse automaticamente, ridiscendere con esso al terreno e rivenir su per conto proprio per dimostrare a tutti che oramai lei simili meccanismi li prendeva sottogamba.
Tutti gl’invitati, che le si erano fatti incontro sul pianerottolo sgomitolandosi con una festosa affettuosità venata d’ammirazione e di curiosità, rimasero a guardarsi tra loro, forse pensando che doveva trattarsi d’una particolare etichetta italiana.
Poi Nannarella ricomparve, la ciocca a gronda sulla fronte, la bocca spalancata in una gran risata, e porse guancia a tutti perchè la baciassero. Il collaudato pudore americano non resse a quella seduzione, e tutti s’avventarono sul volto di Nannarella con la medesima febbre con cui i loro padri s’erano avventati un tempo sulle miniere d’oro dello Yukon. “Charming! … – dicevano – Oh, how lovely! …“. E da quel momento in poi diventò di moda, e fu tutto uno sbaciucchiarsi, ma castamente.
Le sciarpe da apache
Shirley Booth (andate a vedere il suo film “Come back little Sheba” quando lo daranno in Italia, e capirete chi è) guardava incantata la sua ospite. Andandole incontro per abbracciarla, le disse con voce commossa «I nostri critici mi hanno fatto molti complimenti per le mie interpretazioni. Ma quello che mi ha più lusingato è di essere stata paragonata a voi, Anna…». Ed era sincera perchè lo aveva già detto a me, in confidenza, poco prima.
Anna rispose regalmente: «Ah, come vorrei che i critici italiani potessero dire, di me, che io sono la Shirley Booth italiana!»
La frase, pronunziata a voce alta e subito tradotta nell’equivalente inglese, passo di gruppetto in gruppetto e fece sensazione. “Charming! … How lovely! …” si seguitava a udire.
Alla fine della serata si videro varie signore e signorine, che erano arrivate con chiome accuratamente composte in scrupolose pettinature dopo ore di messa in piega, uscire con ciocche a gronda, il cappotto buttato negligentemente sulle spalle e il collo avvolto in sciarpe da apache. Nannarella aveva conquistato Nuova York e stava cominciando a fondarvi una moda.
«Tutte le nostre dive – scrisse l’indomani il critico più autorevole – in confronto ad Anna Magnani sono come manichini di cera in confronto a un essere umano. Solo Greta Garbo può reggere il paragone».
L’indomani non soltanto gli ascensori, ma tutta Nuova York, Nannarella prendeva sottogamba. Vi si aggirava spavaldamente dicendo «Ma che ce vo’ a circola’ pe’ sta città? Le strade hanno li numeri…».
Si fermava a guardare una vetrina e la gente si fermava a guardare lei. La Magnani è donna da far macchia dovunque; ma qui, poi, era un pugno in un occhio addirittura, e le fotografie che tutti i giornali, in tutte le pose, avevan pubblicato di lei, la rendevano facilmente riconoscibile.
“Magh-nani! … Magh-nani! …” si sentiva mormorare. “Charming! Oh, how lovely…“. Nannarella ogni tanto si volgeva e, le mani sui fianchi, alla romana, ricambiava quegli sguardi con aria di sfida. «Lovely, a me non me l’ha mai detto nessuno…» protestava.
Ma le sue occhiate, lungi dall’incutere spavento, suscitavano ilarità, cui anche lei finiva per partecipare. «Ma che bbona ggente so’, st’americani! … Se divertono come li regazzini…». E, a sua volta come una ragazzina, abbracciava un di quegli erculei pizzardoni che, nello smarrimento, nella felicità e nella confusione dell’amplesso, lasciava ingorgare il traffico.
Una volta una donnetta italiana la fermò e, con le lacrime agli occhi, prese a gridare «Quanto siete bbella, madre santa!… Facètemi baciar le mani!…». Anna l’abbracciò.
Un’altra volta un prete le venne incontro «Magnani! – gridò aprendo le braccia – Voi non sapete che ho scritto una poesia per voi!». «E dove mi ha visto, padre?» rispose Anna. Poi, minacciandolo col dito «Allora è vero – aggiunse – che al cinematografo ci andate anche voialtri, malgrado il divieto...»
Una sera volle andare a Harlem, a cena da Ray Sugar Robinson, il celebre campione di boxe. Ray, che di rado viene nel suo locale, quando lo seppe, ci si presentò innanzi tempo a prepararlo per la grande occasione. Ridente e snodato come un ballerino, era sulla porta ad attenderci; e, quando vide Anna, le venne incontro a braccia aperte. Anna ci si rifugiò dentro, e si rivolse a noi con una smorfia sbigottita: «Ammazzalo, che muscoli!…» disse.
Poi lo baciò su tutt’e due le gote. Ray, un po’ inquieto, si volse verso l’interno del locale. Ma la signora Robinson, grazie a Dio, non c’era; e allora ne approfittò per consegnare ad Anna tutta una serie di fotografie con dedica, ingiungendole: «Dovete metterne una in ogni stanza della vostra casa. E guai a voi se, quando vengo, ce ne trovo altre di altri uomini…».
«Bene – disse Anna che non aveva capito nulla – mangiamo?». E fece con la mano il gesto di chi si porta qualcosa alla bocca. «Si – rispose Ray a sua volta senza capir nulla – se ce ne trovo un’altra di un altro uomo, me lo mangio!». «Bene! – ripetè Anna – Allora mangiamo!»
In realtà non mangiammo. Recitammo soltanto la scena di un pranzo davanti a una folla di negri che ci si stringevano tutt’intorno e che rimasero piuttosto delusi quando videro Anna arrotolare gli spaghetti intorno ai denti della forchetta. Avevano sperato, si capiva benissimo, che li prendesse con le mani.
Ray era incantato dalla sua ospite. Un suo cameriere che aveva fatto il soldato in Italia e conosceva la nostra lingua, le disse «Pregatelo di tornare alla boxe, miss Magh-nani. Per voi sarebbe capace di farlo».
Anna pregò Natalia di tradurre a Ray: «Perchè non prendete a pugni qualcuno?», «Chi, per esempio?» fece Ray balzando in piedi e rimboccandosi le maniche sui lunghi possenti elastici muscoli. «Lui – disse Anna senza esitare, indicando Renzino Avanzo – Sapete cosa fa, ‘sto scostumato? Quando si vuol portare a casa una ragazza, le dice: “Vieni, cara, ti presento alla Magnani…”».
Ray, quando Natalia ebbe tradotto, si abbandonò a una risata che sembrava un attacco di epilessia, poi si curvò all’orecchio di Anna e mormorò soavemente: «Vieni, cara, ti presento alla Magh-nani…».
La prima di “Bellissima”
Al banchetto che le offrirono i critici cinematografici, Nannarella volle fare la disinvolta, e ci riuscì quasi fino all’ultimo. Che fatica dovettero costarle quegli atteggiamenti da donna di mondo; lo sa Dio, ma non lo seppero i critici, che non se ne avvidero.
Il fatto è che Nannarella, popolana autentica, non cade mai nelle stonature in cui incorrono le mezze calzette. Essa colora la sua conversazione con gesti e risate un po’ fuori etichetta, ma non mangiò il pesce col coltello, né usò lo stuzzicadenti. Aveva capito, solo a guardarli, che i critici cinematografici, in America, son gente grave, austera e posata, e le loro riunioni non sono improntate al goliardismo e al pappecciccia in uso da noi.
Ma a un tratto tutto il personale, naturalmente italiano, del ristorante, volle venire a salutarla. Perfino sguatteri e cuochi accorsero dalla cucina, e con i loro berrettoni bianchi si allinearono di fronte a lei, che cercò dapprima di buttar la cosa sul tono scherzoso.
Poi, guardando quelle facce, si accorse che alcune eran pallide e in altre gli occhi s’eran velati di lacrime. Allora si alzò e, volgendo le spalle ai suoi commensali, andò a stringer la mano di quella povera gente. Uno gliela baciò. Un altro, trattenendogliela fra le sue, disse: «Tu sei quella che ha regalato la capra al mio paese, vero?». Era la capra di Vulcano, che Anna effettivamente aveva donato al sindaco d’Amalfi.
Gli s’erano stretti intorno, ora, e le toccavano timidamente le braccia e il vestito. Anna volle ridere, ma la bocca le si rifiutò e, invece di schiudersi, si contrasse. «E che, me volete fa’ piagne’, mo’? – mormorò. – Davanti a tutta ‘sta ggente?». E si volse a guardare i critici con spavaldo gesto, pronta – si vedeva – a ricambiare con la propria, di sfida, la loro risata di scherno. Ma i critici non ridevano.
In un silenzio di piombo, alcuni avevano abbassato la testa; altri fissavano la scena, come pietrificati. Anna scrutò i loro volti, uno per uno, con aria sospettosa e aggressiva. Capì che perfino in loro, abitualmente scettici e smaliziati, ogni intenzione d’ironia era svanita, e che ora essa poteva anche abbandonare I suoi scomodi atteggiamenti di donna di mondo.
Allora si asciugò gli occhi col dorso della mano; e, in un inglese quasi corretto, disse: «Vi ringrazio di aver dimenticato per un momento la vostra qualità di critici».
All’indomani della trionfale prima di “Bellissima“, uno di costoro ricordò la scena e la commentò con queste parole: «Non si capisce come e perchè in Italia ci si ostini ancora a comporre degli scenari per Anna Magnani. Ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo sguardo, ogni sua risata sono un film. Essa è qualcosa di più e di meno che una formidabile attrice; è una formidabile creatura umana…».
Ora Anna ha cessato di essere charming e lovely, in America; è diventata terrific e firy.
Indro Montanelli