Roma, maggio 1968
Anna Magnani ritorna al cinema, è tanto tempo che non faceva del cinema, eppure si offende se uno le domanda come mai.
«Io non ho mai lasciato il cinema», risponde quasi con rabbia. «E’ che credo di avere il diritto di lavorare quando e come piace a me, e non quando piace agli altri. Sono stata viziata? Forse. Mamma Roma, per chi crede che lo abbia scritto, Pasolini? Per me. E Tennessee Williams? Per chi ha scritto La rosa tatuata, La discesa, La dolce ala della giovinezza? Per me. Personaggi su misura, mi spiego? E allora mi va. Ora mi è capitato questo bestseller, Il segreto di Santa Vittoria. Me lo ha proposto Kramer, Kramer è un amico e io mi fido di lui: insomma, mi va…»
Il segreto di Santa Vittoria ha avuto un enorme successo negli Stati Uniti. Lo ha scritto Robert Crichton, un autore quasi sconosciuto che negli anni fra il ’43 e il ’45 faceva la guerra sul fronte italiano come ufficiale dell’Ottava Armata. Racconta la storia di un piccolo paese dove non esiste che il vino. Tutto ciò che accade in questo paese, gioie, dolori, speranze, fatiche, tutto ha a che fare col vino. Ma un giorno arrivano i tedeschi, affiggono un editto sulla piazza. Vogliono requisire ogni cosa.
«E’ bello sa?», riprende l’attrice. «Pensi a questi disgraziati che cercano di salvare le loro botti, non hanno altro, non hanno mai avuto altro. Voglion rivoltarsi, ogni rivolta ha bisogno di un capo, e il capo naturale di Santa Vittoria sarebbe il sindaco: nel film, sarà Anthony Quinn. Ma il sindaco non è all’altezza, è pieno di dubbi, ha una dannata paura… Tuttavia ha anche una moglie, una donna volitiva e coraggiosa.»
«Lei farà la parte della moglie, immagino.»
Risponde di sì e si mette a ridere. Ci tiene a spiegare che alla fine si vedrà come anche il sindaco è meno vile di quello che sembra.
«Il coraggio…», riprende, come se parlasse a se stessa. «E chi lo sa che cosa è il coraggio? Lo sa che io non glie la faccio più a montare su un aeroplano? Lo sa che quando siamo andati a Mosca a dare La lupa tutta la compagnia si è fatta tre giorni di treno perchè io mi sono rifiutata di volare? Questo palazzo che vola, ventimila bottoni e c’è uno che li deve toccare e io non lo conosco, e tutto quello che mi sanno dire è di allacciarmi una cintura, ma andiamo! E perchè? Per fare più in fretta. Sempre più in fretta. E poi?»
Un discorso lungo. Una paura più profonda di quella, forse, soltanto animale, che può prendere un essere umano rinchiuso in una macchina volante. E’ aver capito che è inutile correre. E’ negare una conquista del proprio tempo, il tempo della tecnica, il tempo della massa. «Ha capito? Il viaggio programmato, l’arte programmata, la vita programmata. Perchè siamo in troppi. Guardi, qui a Roma, non mi faccia parlare…»
Si accende una sigaretta, con malagrazia. «E’ come una pignatta», sentenzia solennemente. «Nella pignatta ci starebbe un chilo di fagioli, e invece no, ce ne fanno stare due, e poi tre, e poi viene tutta una colla che fa schifo, ma che cosa crede che glie ne..» Un colpo di tosse, al momento giusto. «Vede», riprende con tutta l’educazione possibile, «vede, a loro non interessa proprio.»
(E’ inutile chiederle chi sono questi loro. Loro sono gli altri, l’orda degli altri che ti intontisce, ti beffeggia, ti tortura, ti sommerge e non puoi fargli niente perchè sei rinchiuso nella società, appunto come si è rinchiusi dentro un aeroplano, e le leggi sono come quella cintura, non servono a molto di più). «…e fate un’altra Roma», grida, «fate un’altra Roma cento chilometri più in là, mille chilometri più in là. E poi…»
Tace all’improvviso, ci guarda negli occhi.
Un lampo d’Apocalisse per vedere il più grande spettacolo del mondo, milioni di romani a piedi, in automobile, sugli autobus, sulle motorette, che passano i ponti del Tevere e vanno chissà dove, ma cento e mille chilometri più in là, vanno a morì ammazzati, forse è proprio questo che vorrebbe dire, ma non lo dice: e comunque non sarebbe per cattiveria, perchè questa donna non è cattiva.
Vorrebbe vivere in pace e non può. E’ sola e si difende come si difendono i solitari, cioè sempre e da tutti, anche quando non ce n’è bisogno, la lotta esce in ogni caso dalla piccola vicenda quotidiana, diventa tragedia.
«Le tasse, ha capito, le tasse…» Si morde le labbra e non dice assolutamente nulla che possa offendere gli uomini e gli istituti fiscali, davvero non dice nulla, ci guarda soltanto (e adesso ci sembra di vedere una legione di arcangeli che piomba con le spade fiammeggianti sulle tribù degli esattori. No, gli esattori non ce la farebbero a passare i ponti del Tevere, morirebbero prima. Malamente).
«Le tasse, vede», riprende quasi con dolcezza, «qui in Italia sono riscosse in un modo, ecco, un po’ antiquato. Guardi in America, invece. Uno va là come ci sono andata io, gli danno un lavoro, il lavoro rende dei dollari e il governo ne vuole una parte. Mica poco, sa? Anche il 40, anche il 50 per cento. Però il conto glielo fanno subito, una mattina viene uno che sa tutto, saprebbe persino se alla firma del contratto ti hanno pagato l’aperitivo oppure no. E ti dice che secondo la legge, siccome hai guadagnato tanto, le tasse sarebbero tante. Si fanno tutti i conti, il tassato ha diritto di farsi riconoscere le spese, se può documentarle, e poi si paga e la cosa è finita lì. In Italia, invece… Guardi, io denuncio tutto, ma crede che serva a qualche cosa? Decidono loro, il cittadino non esiste. Si protesta, si ricorre, passano mesi, passano anni interi. Si presentano documenti, si fanno vedere persino i contratti, manco a quelli ce credono: e allora come se fa? E così si va avanti, con questa angoscia che ogni mattina te po arrivà la sorpresa… ma andiamo! Ma è vivere questo? L’ultima volta gli ho detto, guardi, lo sa che sono quattr’anni che non lavoro? E quello mi ha risposto che prima ho lavorato, che ho guadagnato, che dovevo metterne da parte, proprio come quella storia della cicala e della formica. Ahò, ma che se credono, che se una donna avesse la testa sul collo farebbe l’attrice?»
Si pente subito. Si pente di aver mancato in qualche modo di riguardo a questo mestiere che è il suo, gli ha dato tutta la vita e gliela darebbe di nuovo, se potesse tornare indietro.
Ma ormai è tardi. Tardi perchè il tempo è passato, tardi più ancora perchè è stato perduto.
«Io non ho mai lasciato il cinema», ha detto. Ma non ha aggiunto che è stato il cinema a lasciare lei. Quando la carica vitale del neorealismo si è spenta, quando è cominciato il benessere, quando i produttori hanno capito che la gente chiedeva al cinema, soprattutto, di non pensare. Allora è stato il tempo degli altri, e delle altre. Stupide, può darsi. Ma bellissime. E lei, Anna Magnani, non è mai stata bellissima. Giovani. E lei…
«Sulle mie biografie», dice, «ho letto almeno quattro date di nascita differenti. Meno male, toh, così una smentisce l’altra. Non si aspetterà che le dica quella giusta, chiaro?»
Guarda, vorrebbe sembrare disinvolta, vorebbe scherzare, ma non è vero, questa cosa la fa soffrire.
«Cosa fa?», riprende con dispetto, «sta scrivendo che io le ho detto che non voglio dire la mia data di nascita? Lei non scriverà nulla, ha capito?»
E’ triste non poterle spiegare che non si fa per cattiveria. E’ triste non poterle ricordare che quelle biografie sono in tutti gli archivi dei giornali, secondo una è nata il 7 marzo del 1908, secondo un’altra l’11 aprile del 1905, secondo le altre ancora nell’otto, nel sette, persino nel quattro.
E sono sessant’anni, e allora le parole hanno un altro senso e il bilancio di una vita di attrice prende un altro peso. E questa visita un’altra luce.
L’abbiamo attesa cinque minuti nel salotto della sua casa in via degli Astalli, a pochi passi da piazza Venezia. Un’impressione sconcertante.
Quadri dappertutto e nessuno che tradisse una scelta definita, almeno la prima fra il figurativo e il non figurativo. Un pianoforte a mezza coda, e, sopra, un gatto soriano dal pelo lungo e dallo sguardo malvagio, seduto su un fascio di partiture come i diavoli sulle grondaie della cattedrale di Reims. (Ush, ush, si è mandato via il gatto e si è vista la copertina della sonata opera 27 numero 2 di Beethoven, il romantico Chiaro di luna. E sotto, le canzonette napoletane.)
Nella libreria c’era tutto Prous e le Mele d’oro della Rawlings, la vita di Gesù di Mauriac e i sonetti del Belli, Balzac e George Sand, Cronin e la Deledda, Pirandello e l’atlante del Touring, le lettere di Van Gogh e il codice penale, Bernard Shaw e l’enciclopedia del cane. E tutto intorno specchiere, candelabri, cristalli, sculture orientali, un mobile antico di gusto squisito e una sdraio da caffè di periferia, qualche cosa che potrebbe essere una vendita all’asta oppure l’anticamera della chiromante, una vertigine di gusti troppi diversi per non essere deliberatamente voluti.
Ma perchè?
Capriccio. Anticonformismo. Tante cose si possono pensare della casa di un’attrice. Quando è giovane. Quando è ancora nella stagione in cui si attacca e si morde. Ma non quando è in quella in cui bisogna tacere e difendersi, nell’ombra sempre più lunga della solitudine.
E poi è entrata lei. Spettinata, come era previsto. Ma con una vestaglia incredibile, una specie di camicia da notte lunga fino ai piedi, troppo stinta, troppo logora, troppo scollata. Perchè? Per chi recitava questa parte che ieri poteva essere la parte esatta di Nannarella, e oggi non può esserlo più?
Si è messa a passeggiare su e giù fumando a boccate lunghe, si passava ogni tanto una mano nei capelli per arruffarli ancora di più, se possibile. Con quella specie di camicia da notte. Con quell’incedere maestoso, nonostante tutto.
Voleva fare la caricatura delle dive del muto, quelle col boa di struzzo e il bocchino d’avorio? Poteva darsi. Tutto può darsi con questa donna: può darsi persino che abbia desiderato disperatamente di assomigliare a una diva del muto, in un giorno della sua vita, e che abbia pianto davanti allo secchio, confrontandosi con la fotografia di Francesca Bertini. E allora questa caricatura potrebbe essere stata una vendetta.
Ma chi è la vittima?
«Scriva», ha detto imperiosamente, «scriva che sono nata a Roma. Tutti dicono che sono nata in Egitto e non è vero, guardi, sono nata in una casa davanti a porta Pia e porta Pia sta a Roma, no? Niente, continuano a dire che sono nata in Egitto, e questo perchè mia madre è stata in Egitto e ci sono stata anch’io qualche tempo, poi ho sposato il regista Alessandrini che pure lui è stato in Egitto, insomma ha cominciato a girare questa storia e non si riesce a farla finita nemmeno con gli avvocati.»
«Avvocati? Ma perchè, le ha procurato dei danni?»
«Si fa per dire, insomma. Ma non è vero, non è vero, scriva che non è vero.»
Non c’è niente di male, a essere nati in un posto o l’altro di questa terra. Ma per lei sì. Tutte le biografie di Anna Magnani affermano che è nata ad Alessandria d’Egitto. Una persona che la conosce molto bene, e che ha passato diversi anni laggiù, ci ha confermato che hanno ragione le biografie. E ci ha raccontato la storia amara di questa bambina che non ha mai conosciuto suo padre, ha conosciuto soltanto la miseria, l’umiliazione, la voglia di rifarsi a tutti i costi.
«Qui a Roma dove sono nata, ripeto, dove sono nata… bene, ho fatto fino alla seconda liceo, poi mi sono stancata, ah, dimenticavo, ho fatto un anno al conservatorio, e prima ero stata dalle suore francesi sul Gianicolo. Ho cominciato a recitare a sedici anni, non ne avevo mica voglia, sa? Io non ci ho mai creduto alla fiamma sacra. Non andavo d’accordo con mia madre, ecco tutto. Recitare era un’evasione, in quel tempo avrei fatto qualsiasi altra cosa. Insomma: non volevo più vivere con mia madre e me ne sono tornata da mia nonna. Ma le interessa?»
Per lei recitare è come una malattia.
Lo ha detto e si è messa a sghignazzare, senza ritegno. No, evidentemente queste cose non interessano: sopratutto messe giù in questo modo, che farebbe inorridire qualsiasi consigliere delle pubbliche relazioni. Ma non è forse il suo modo per far capire che la sua vita privata appartiene soltanto a lei, che ogni altra attrice può – come amano dire i giornali – «confessarsi», ma lei, Anna Magnani, non si confessa?
Le altre attrici hanno tutte un press agent che dispone le visite dei giornalisti. Che le istruisce sul tipo d’uomo che arriva, che le mette in grado di ricordare, quanto basta, gli ultimi articoli che ha scritto, così al momento opportuno lei potrà dire che lo segue, che lo ha sempre seguito, che quel giornale è l’unico che legge. Eppure questa donna non è il tipo da farsi istruire. Non ha, che si sappia, un press agent. Se qualche produttore glielo mette alle costole, c’è da giurare che lo manda via oppure fa tutto il contrario. Vuol fare da sola, non si fida di nessuno. E anche questo, perchè?
«L’ha visto?», ha ammiccato, indicando la statuetta dell’Oscar che scintilla sulla mensola nel camino. «Non so nemmeno io come ho fatto a prenderlo. Sa come succede in America. Bisogna entrare in un giro, dietro a un Oscar ci sono interessi di miliardi e lotte di ambizioni ancora più violente che quelle dei miliardi. Be’, me lo hanno dato. Anche se io non ho fatto che recitare. Non so fare altro, io.»
Sorride. Ricorda. La rosa tatuata, una delle sue interpretazioni più grandi. Uno dei successi più clamorosi. Ma dopo? Dopo sarebbe stato troppo pretendere che proprio la grande industria di Hollywood decidesse di fermarsi per insistere in un esperimento, per raccogliere il consenso di qualche critico ma per perdere, presto o tardi, i dollari del pubblico.
E allora, anche con l’America basta. Anna Magnani riprendeva una nave e tornava in Italia. Per trovare un Paese molto diverso da come lo aveva lasciato, un cinema ogni giorno più americano, nel senso industriale del termine.
E allora niente. Niente col cinema, prefabbricato sui sondaggi di opinione e sulle ricette della psicanalisi. Niente con la nuova frontiera della televisione («La televisione? Ahò! Col regista che ti fa il segnetto per terra, e tu devi stare lì a dire quella battuta, non importa che a te lì non ti viene, c’è il segnetto col gesso e tu ci devi stare. E se quando reciti ti vuoi mettere a sedere, oppure ti vuoi alzare, eh, no: te deve fà il segnetto il regista, altrimenti guai!»).
Il teatro, allora. Soltanto il teatro. forse.
«Vincessi duecento milioni al Totocalcio… guardi, i casi sono due. O li porto tutti alle tasse, così se li pigliano una volta per tutte e mi lasciano in pace, oppure metto in scena l’Antonio e Cleopatra di Shakespeare.»
«E perchè proprio l’Antonio e Cleopatra?» «Perchè mi piace, è meraviglioso. Ho sempre desiderato di metterlo in scena io, non soltanto di recitarlo.»
«E finchè non arrivano i duecento milioni?» «Beh, c’è questo Segreto di Santa Vittoria. Cominciamo a girare il 16 di giugno ad Anticoli. E’ un paese che sembra fatto apposta per quella storia. Poi, probabilmente, c’è una ripresa de La lupa, in Italia e in Spagna. L’abbiamo portata a Mosca e a Varsavia, è andata benissimo. Poi Franco Monicelli e Nicolai stanno mettendo in cantiere un lavoro su Maria Tarnowska, è buono, sa?»
C’è da crederlo. Grosso dramma, amore e interesse, la maliarda nera che induce il giovane Nicola Naumow a uccidere il conte Kamarowski, promesso sposo di lei… Ecco la Venezia del 1910, il processo del secolo… E Anna Magnani che dice: «E’ buono, sa?» E poi ride, vorrebbe sembrare sguaiata e invece si vede che muore dalla voglia di entrare anche in quel personaggio.
Perchè recitare è come una malattia, una di quelle malattie che si prendono una volta e non ci si libera più. Se uno recita davvero. Se uno ci crede davvero. Se si porta dentro questa passione che brucia, da tanti anni, e ogni giorno vorrebbe che gli altri si fermassero intorno a vedere, a capire.
Perchè è per loro, alla fine, che uno si consuma: ma loro vanno di fretta, hanno l’aeroplano, l’automobile, tante cose e il cuore non ce l’hanno più, questa razza di ingrati.
G. Grazzini