Dicono che, finora, Alberto Sordi non abbia avuto successo all’estero: può darsi che il successo venga, presto, e che questa situazione sia smentita da una inaspettata «scoperta» (e l’auguro all’attore): comunque non si può non meditare su questo fatto.
Alberto Sordi è stato quest’anno al centro del cinema italiano: c’era Alberto Sordi nei Magliari, c’era Alberto Sordi nella Grande guerra, c’era Alberto Sordi nel Moralista, c’era Alberto Sordi in altri tre quattro filmetti di cassetta (vedi Costa Azzurra); in gran parte della produzione italiana c’era Alberto Sordi. E ci sarà.
In questo momento la comicità nazionale coincide in gran parte con quella di Sordi. Totò e Fabrizi invecchiati e cadenti, gli altri quasi tutti fuori moda (a parte, più aristocratico, il caso di Eduardo De Filippo), è Sordi che ha il monopolio del riso. Ma all’estero non fa ridere. Bisognerà pur chiederci il perché.
Vediamo un po’: in fondo il mondo della Magnani è, se non identico, simile a quello di Sordi: tutti due romani, tutti due popolani, tutti due dialettali, profondamente tinti di un modo di essere estremamente particolaristico (il modo di essere della Roma plebea ecc.).
Eppure la Magnani ha avuto tanto successo, anche fuori d’Italia: il suo «particolarismo» è stato subito compreso, è diventato subito, come si usa dire, universale, patrimonio comune di infiniti pubblici. Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le «zinne», la sua testa «scapijata», il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto, si è spogliato del colore locale ed è diventato mercé di scambio, internazionale.
È qualcosa di simile a quello che succede per i canti popolari: basta trascriverli, aggiustarli un po’, toglierci la selvatichezza e l’eccessivo sentore di miseria, ed eccoli pronti per lo smercio a tutte le latitudini.
Alberto Sordi, no. Parrebbe intraducibile. Lo si direbbe un canto popolare che non si può trascrivere. Ce lo vediamo, ce lo sentiamo, ce lo godiamo noi: nel nostro mondo «particolare».
Ma di che specie è il riso che suscita Alberto Sordi?
Pensateci bene un momento: è un riso di cui un po’ ci si vergogna. E il massimo di questo senso di vergogna viene raggiunto, (ricordate?), nella risata angosciosa e un po’ isterica che Sordi strappa al pubblico nei due episodi dei Magliari in cui vende la mercé della povera ingenua gente tedesca, per di più colpita dal lutto.
E’ vero che il «magliaro» è stata la più brutta interpretazione di Sordi: e non si capisce come egli sia così sfuggito di mano a un regista di buon gusto, anzi, di gusto raffinato, come è Rosi.
Tuttavia, appunto perché è la più brutta, questa interpretazione può essere presa ad esempio, perché, nel suo eccesso, mostra con chiarezza l’intelaiatura della comicità di Sordi: è la comicità che nasce dall’attrito, con la variopinta e standardizzata società moderna, di un uomo il cui infantilismo anziché produrre ingenuità, candore, bontà, disponibilità, ha prodotto egoismo, vigliaccheria, opportunismo, crudeltà. È una deviazione dell’infantilismo. E quando uso questa parola, la uso in senso clinico (il lettore mi perdoni), nel senso che le danno gli psichiatri; la uso cioè molto seriamente.
Il referto dei medici su Proust era, per esempio, infantilismo. L’infantilismo presiede a qualsiasi operazione artistica moderna, è il dio del decadentismo: cioè della grande arte borghese di questo ultimo secolo. Anche la comicità rientra in questo enorme schema fenomenologico.
Da Charlot a Tati, per citare solo i grandi, i personaggi comici sono in realtà dei bambini (e ricordate pure Pascoli: ne siete storiograficamente autorizzati), bambini cresciuti, magari allampanati, magari pelati, ma sostanzialmente bambini: o, che sarebbe lo stesso, poeti.
Anarchici, giramondo, nostalgici, scapigliati, spostati, falliti ecc., sono fondamentalmente inadatti a un rapporto normale con la società: in continuo urto con essa, e, nella fattispecie, con le sue convinzioni mondane, col suo tacito galateo di ipocrisie.
Nessuno dei grandi comici del nostro tempo è un vero rivoluzionario: ma semplicemente un umanitario, un moralista, che, della società, indica i mali senza indicarne i rimedi. Il «ragazzine» che è in ogni comico non ne sarebbe capace.
Comunque resta un dato di fatto: in ogni comico vero del nostro tempo (e di tutti i tempi, del resto) c’è una profonda rivolta morale, che, se implica l’ingenuità inabile e improduttiva dell’infanzia, ne implica anche la bontà.
La bontà: ecco quello che manca totalmente in Sordi. Charlot ha fatto ridere tutto il mondo perché era buono; Harold Lloyd, Stan Laurel e Oliver Hardy hanno fatto ridere tutto il mondo perché erano buoni; Tati fa ridere tutto il mondo perché è buono.
La Magnani – che tuttavia non si può dire una «comica», nel senso stretto della parola – è piaciuta a tutto il mondo, pur essendo così particolaristicamente italica, perché è generosa, appassionata.
Alla comicità di Alberto Sordi ridiamo solo noi: perché solo noi conosciamo il nostro pollo. Ridiamo, e usciamo dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo.
Sappiamo che Sordi è in realtà un prodotto non del popolo (come la vera Magnani) ma della piccola borghesia, o di quegli strati popolari non operai, come se ne trovano specialmente nelle aree depresse, che sono sotto l’influenza ideologica piccolo-borghese.
Alberto Sordi, come Cioccetti, è stato educato in sacrestia, da piccolo ha fatto il chierichetto. Cresciuto, si è trovato a doversi adattare: non c’è stata soluzione di continuità morale: ogni atto, che il bambino onesto educato dal prete riproverebbe, è tacitato, è giustificato dalla necessità. Un malato ha la necessità di essere sano, e, preso da questa necessità improrogabile, non ha tempo e modo di occuparsi dei mali degli altri. È questo infantilismo come malattia, diventato cattiveria, che commuove in Sordi noi italiani: possiamo perdonarlo, perché sappiamo tutto, cosa c’è dietro e sotto.
Ma fuori d’Italia non sono cattolici: sono protestanti, puritani, o sono dei cattolici rigorosi senza compromessi.
Capisco come per pubblici simili sia difficile ridere su un modo di vita che è il peccato stesso, è il male stesso, senza rimedio, senza contraddizione. Essi non conoscono l’arte di arrangiarsi, o, se ne hanno sentore, la vedono molto più romanticamente. Tanta ferocia, tanta viltà è inconcepibile. Noi possiamo riderne, amaramente: ma a loro chi glielo fa fare?
Questa comicità di Sordi piccolo-borghese e cattolica, fondamentalmente senza nessuna fede, senza nessun ideale, non urta e non urterà mai la censura italiana: urta e urterà sempre chi possiede una sensibilità civica e morale, cioè la media dei pubblici francesi e anglosassoni.
Non vorrei che questa potesse parere una eccessiva «stroncatura» di Sordi: in fondo, probabilmente senza rendersene conto, il tipo che egli così intelligentemente e vividamente ha inventato, era necessitato fuori da lui, dalla società in cui egli vive in assoluta acribia.
Per diventare un vero grande comico, «universale» (come si dice) gli ci vuole un po’ di senso critico: un po’ di cattiveria intellettuale, finalmente, dopo tanta cattiveria viscerale!
C’è infatti la possibilità di inserire nel suo personaggio quel tanto di pietà, cioè di conoscenza di sé e del mondo, sia pure irrazionale e sentimentale, c’e gli manca. Egli deve essere meno ellittico, meno ammiccante: noi, che ci siamo in mezzo, lo capiamo subito, gli stranieri (cioè il mondo, cioè lo spettatore in assoluto), no. Egli deve rendere esplicita quell’estrema ombra di pietà che nel suo infantilismo pure permane e può commuovere, malgrado le mostruosità di cui è capace.
E dico che tutto questo è possibile perché due volte Sordi c’è riuscito: una volta per merito del dialogo, una volta per merito del regista.
Intendo riferirmi a una particina indimenticabile, a una specie di «a solo» che Sordi ha eseguito nel Medico e lo stregone; e, soprattutto, alla Grande guerra. In questi due casi, finalmente, Sordi vive di due elementi, entrambi operanti: il Sordi bebé antropofago, cattivo, amorale, e il Sordi poveraccio morto di fame sostenuto suo malgrado da una forza morale, dalla pietà che in infinitesima parte sente e per il resto incute.
Se in Sordi entrasse definitivamente questa contraddizione, se egli capisse che non si può ridere se al fondo del riso non c’è della bontà – pur esercitata o repressa in un mondo nemico – la sua comicità finirebbe di essere uno dei tristi fenomeni della brutta Italia di questi anni, e potrebbe, nei suoi modesti limiti, contribuire almeno a una lotta riformistica e morale.
Pier Paolo Pasolini
(“La comicità di Sordi. Gli stranieri non ridono”, tratto da “Opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte”)
Si ringrazia Città Pasolini