Il film, commovente e umano, denuncia invece delle discontinuità
Venezia, 2 settembre
Ecco un film umano, commovente, diremmo quasi affettuoso: “Suor Letizia”, di Mario Camerini, proiettato stasera tra festosissime accoglienze alla XVII Mostra; non è difficile pronosticargli, nel corso dell’anno, molte settimane di cartellone e un foltissimo pubblico.
Suor Letizia (che riporta al cinema italiano l’arte, la comunicativa e il calore umano incomparabili di Anna Magnani) è appena tornata dall’Africa, dove per venti anni si è occupata delle missioni, quando la madre generale le affida un nuovo incarico: dovrà recarsi in un’isola al largo di Napoli dove, in un vecchio e cadente convento, alcune suore dell’ordine conducono vita stentatissima e miseranda.
Suor Letizia non se lo fa dire due volte, rimbocca le maniche e parte per la nuova destinazione. Lì, nell’isola, la sitauzione è triste: non solo per le suore ma anche per gli abitanti tutti, privi di ogni più necessario mezzo di sostentamento.
Suor Letizia, però, non si scoraggia, provvede per prima cosa al convento, e subito dopo, dedica le sue preoccupazioni agli abitanti, in particolare a Salvatore, un bambinello lacero ed orfano che la madre vuole abbandonare a distratti e maneschi zii, partendo per l’America.
A contatto di Salvatore, un sentimento nuovo, o meglio antico quanto il mondo ma finora assopito nel cuori di Suor Letizia, si fa strada: l’amore materno.
E’ su questo sentimento, sui mille modi con cui la religiosa lo interpreta, lo riscalda, lo vivifica al punto di subordinargli ogni altro dovere, che il film trova il suo filo conduttore più saldo e il suo equilibrio.
Nell’entusiasmo della sua nuova missione e del nuovo purissimo amore, Suor Letizia, che avrebbe dovuto chiudere il convento e portare con sè le suore a Roma, invece lo ingrandisce trasgredendo le disposizioni ricevute e vi fa ricoverare Salvatore e una ventina di piccoli bimbi. Ma da Roma giunge la conferma dell’ordine di rientro e Suor Letizia, sia pure tristemente, china il capo alle regole dell’obbedienza cui è devota e abbandona, con grande strazio, Salvatore.
Le è di conforto, nel malinconico ritorno, sapere che, grazie a lei e al suo sacrificio, il bimbo è di nuovo con la madre e avrà, dinanzi a sè, un avvenire più sereno e sicuro.
“Suor Letizia” è, come ognuno può comprendere, un film immaginato e costruito sulla misura di Anna Magnani. E, infatti, ogni qualvolta la nostra grande attrice è in scena, il film è agile, commosso, sicuro.
Quelli che sono i difetti dell’opera si manifestano in assenza della protagonista e consistono in una certa discontinuità, in talune stasi, in un approfondimento che la Magnani pensa a dare da sola al suo personaggio ma che poi non trova riscontro nell’impostazione delle altre figure e dell’intera vicenda.
“Suor Letizia” – sia ben chiaro – è un film immaginato, diretto e fotografato secondo tutte le regole del miglior cinema; gli manca, talvolta, la fantasia, l’ispirazione, la partecipazione intima dei realizzatori alla storia da loro raccontata sullo schermo.
Da Zavattini, autore del soggetto, spesso e anzi quasi sempre ben diversamente e b en più attentamente impegnato, ci saremmo aspettati qualcosa di più.
Qualcosa di cui il film non ha, probabilmente, bisogno per ottenere un grande successo anche in sala pubblica, ma qualcosa che avrebbe consegnato “Suor Letizia” non solo al favore del pubblico ma anche a quello, incondizionato, della critica.
Occorre dire che Anna Magnani è, sinora – e noi supponiamo sarà anche al termine della competizione – la migliore attrice vista sullo schermo del lido? e che difficilmente troverà concorrenti temibili per il riconoscimento finale? Lo sapevamo e non ne abbiamo mai dubitato.
Chi ne avesse voluto conferma l’ha trovata in “Suor Letizia”, chiarissima, luminosa, irresistibile.
Accanto a lei, Eleonora Rossi Drago e Antonio Ciffariello sembrano dei filodrammatici. Eppure recitano al loro livello normale, cioè più che decorosamente.
Non se la prendano dunque se gli elogi, qusta volta, sono tutti per la protagonista.
P. Valmarana