Aprile, 1983
Il racconto della nascita del film di Roberto Rossellini, Roma città aperta, attraverso il quale passa la cronaca degli anni della Resistenza, è il filo conduttore del nuovo libro di Ugo Pirro (sceneggiatore, ma anche scrittore da Le soldatesse e Jovanka e le altre fino al recentissimo Mio figlio non sa leggere), edito da Rizzoli, che sarà in libreria il 13 aprile.
Dal giorno della Liberazione a quello della prima del film al teatro Quirino a Roma: un arco narrativo al cui interno si collocano una serie di episodi che hanno preceduto lo sviluppo di quella stagione cinematografica che va sotto il nome di «neorealismo», inaugurata da Roma città aperta e caratterizzata da altri film come Paisà sempre di Rossellini, La terra trema di Visconti, Ladri di biciclette di De Sica.
Pirro, come è nata l’idea di questo libro?
«Sono stato spinto soprattutto dalla considerazione che non si sa nulla di quella che è stata la nascita sensazionale di un film come Roma città aperta che, stroncato allora dalla critica, ha poi avuto tanto peso nella storia della nostra cinematografia. Ho voluto raccontare una storia appassionante di un momento storico che ha vissuto il nostro cinema, in un’epoca avventurosa, piena di successi e di stimoli per tutti».
Su cosa si è basato per la ricostruzione della cronaca?
«Mi sono servito di tante cose: quando uscì il film non mi occupavo ancora di cinema; solo in seguito ho lavorato con Sergio Amidei, soggettista del film con Roberto Rossellini e dalla loro viva voce ho conosciuto i particolari e le vicende che racconto nel libro, gli aneddoti o episodi anche sconosciuti che ho cercato di inquadrare nel discorso più generale della nascita del neorealismo».
Per esempio?
«La figura del sacerdote, interpretata da Aldo Fabrizi, che fu ucciso dai nazisti e che ha tanta importanza nel film: si è sempre detto fosse ispirata a don Minzoni, invece fu originata da don Pappagallo, un piccolo prete che fabbricava carte d’identità e passaporti falsi per far fuggire i ricercati dai nazisti. Come pure dalla vita reale furono prese le figure di Marcello Pagliero, il comunista che muore sotto le torture naziste, e Harry Feist, il ballerino austriaco che interpretò Kapler».
Che cosa si può dire più in particolare, del personaggio interpretato dalla Magnani, che è poi divenuto il simbolo umano e tragico della donna italiana del dopoguerra?
«Il personaggio è stato suggerito da una vicenda realmente accaduta che lesse Amidei su un giornaletto clandestino: Teresa Gullace, una donna che lottava per la Resistenza, incinta, rimase uccisa dai tedeschi mentre cercava di salvare il marito. La morte avvenne a viale Giulio Cesare dove c’è una lapide che la ricorda. Rossellini ne fece la trasposizione cinematografica dandole il nome di sora Pina».
E’ vero che la drammatica sequenza finale del film nacque quasi per caso?
«Si ed avvenne esattamente così: mentre si stava preparando la scena, la Magnani e Massimo Serato, che era il suo compagno, cominciarono a litigare violentemente per motivi del tutto personali. Per separarli, un addetto alla produzione afferrò Serato, lo trascinò su una camionetta e partì. Ma la Magnani, infuriata, tentò di raggiungere l’auto e nella corsa cadde a terra. Sergio Amidei, soggettista del film e presente all’avvenimento, commentò: questo sarebbe il finale ideale. E Rossellini, che si trovò d’accordo, ne prese spunto per realizzare la drammatica sequenza in cui la Pina, come Teresa Gullace, viene falciata da una raffica di mitra mentre insegue il camion sul quale i tedeschi trascinano via il marito».
E Aldo Fabrizi, allora caro al pubblico per le sue interpretazioni leggere, come prese l’idea di un ruolo drammatico?
«La sceneggiatura gliela lessero in un bar di piazza di Spagna che oggi si chiama Rugantino, ma allora era Lampoldi. Ascoltava in silenzio, a testa bassa. Temettero si fosse addormentato, e invece, alla fine della lettura, quando alzò gli occhi, li aveva pieni di lacrime. Fu il primo a sentire che Roma città aperta sarebbe stato un grande film».
E. Ferrero
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